Maggiore l’uso del contante maggiore il numero dei reati

28 giugno 2018

Recentemente diversi esponenti del nuovo governo hanno proposto di rendere possibile un maggiore utilizzo del contante nei pagamenti, allentando così le restrizioni attualmente esistenti. Tale eventualità è stata criticata da molti osservatori, i quali hanno rilevato che in questo modo si sarebbe favorita l’evasione fiscale e, più in generale, le attività economiche illegali ed anche quelle criminali. 

Uno studio di alcuni ricercatori della Banca d’Italia, Guerino Ardizzi, Pierpaolo De Franceschis, Michele Giammatteo, sembra avvalorare tali critiche.

Nello studio in questione è stato utilizzato un modello econometrico per identificare le anomalie nell’utilizzo di contante a livello comunale potenzialmente riconducibili ad attività criminali. L’analisi ha riguardato 6.810 comuni italiani.

L’utilizzo del contante è stato misurato dalla quota dei versamenti in contante rispetto al totale dei versamenti a livello comunale.

L’ipotesi di base del modello è che l’utilizzo di contante abbia una componente strutturale o “fisiologica” e una componente “illegale” connessa alla presenza di attività criminali.

L’insieme di variabili esplicative, relativo alla componente “illegale”, è costituito da due indicatori di criminalità, rappresentati dal numero di denunce relative alle due categorie di reati comunemente considerate in letteratura: “enterprise syndicate crimes” e “power syndicate crimes”.

Il primo gruppo ricomprende i reati connessi a scambi illeciti di beni e servizi, che prevedono un accordo tra le parti coinvolte (gli specifici reati considerati sono il traffico di droga, lo sfruttamento della prostituzione e la ricettazione), mentre il secondo si riferisce alle attività delittuose collegate al controllo del territorio da parte della criminalità organizzata (come le estorsioni).

Le attività illegali sono di norma a elevata intensità di contante e quindi la relazione attesa tra la variabile oggetto di studio e gli indicatori di criminalità è positiva.

Infine, è stato inserito nel modello un indicatore dell’economia sommersa (il numero pro-capite di società operanti nell’edilizia), con l’obiettivo di distinguere le attività irregolari da quelle criminali.

Le dimensioni del settore edile sono comunemente utilizzate in letteratura come indicatore dell’economia sommersa, in quanto si tratta di uno dei settori (insieme, ad esempio, all’agricoltura) che registrano di norma un’elevata incidenza di lavoratori non dichiarati.

La relazione attesa con l’utilizzo di contante è, anche in questo caso, di segno positivo

Le principali evidenze derivanti dall’utilizzo del modello econometrico citato sono le seguenti.

Il legame tra gli indicatori di criminalità e l’uso del contante è risultato essere positivo: maggiore è il numero di reati pro-capite, più elevata è, a parità di condizioni, la quota di versamenti di contante osservata nei comuni.

In proposito, è stato stimato che un aumento dell’1% del numero pro-capite dei reati di tipo enterprise corrisponde, in media all’anno per comune, a un incremento di circa 4 milioni di euro di versamenti in contanti; analogamente, uno stesso aumento nei reati di tipo power è associato a un incremento medio di circa 2 milioni di euro di versamenti in contanti.

Poi, l’uso di contante è risultato correlato positivamente con l’indicatore di economia sommersa, come atteso.

L’analisi empirica del nesso tra incidenza del contante e segnalazioni di operazioni sospette ha, inoltre, confermato il ruolo segnaletico del contante rispetto all’attività di riciclaggio.

Infine, può essere utile rilevare che le province a maggiore rischio per i reati di tipo power sono risultate essere concentrate nel Sud, dove il controllo criminale del territorio tende a essere più capillare.

Se si considerano le dimensioni assolute dei flussi coinvolti, sono emerse però tra le province a maggiore rischio anche quelle corrispondenti a importanti città settentrionali, come Milano e Torino.

Per quanto riguarda i reati di tipo enterprise, invece, la distribuzione delle province ad alto rischio è apparsa maggiormente diffusa sul territorio nazionale e tra queste diverse province del Settentrione.


Invecchiamo di più ma invecchiamo peggio

26 giugno 2018

Non è certo una novità ma non si può non rilevarlo ancora una volta, il processo di invecchiamento della popolazione italiana è particolarmente consistente. L’Italia è il Paese più anziano di Europa, con l’età media più alta, ma non si sta attrezzando adeguatamente a questa situazione. Lo dimostrano i risultati di un rapporto realizzato dall’Isimm ricerche. 

L’Italia è uno dei Paesi europei in cui si vive più a lungo: chi ha 65 anni oggi può aspettarsi di vivere ancora 20,4 anni (solamente la Svizzera, la Spagna e la Francia sono contraddistinte da un’aspettativa di vita maggiore).

Se si esamina però la speranza di vita in buona salute a 65 anni, definita da Eurostat come gli anni di vita che ci si aspetta di vivere senza limitazioni delle funzioni o disabilità, il nostro Paese si posiziona al quintultimo posto in Europa e peggio di noi fanno solo Slovacchia, Lettonia, Estonia, Ungheria e Portogallo (in Italia tale speranza di vita è pari a 7,7 anni mentre in Svezia – prima in classifica – è pari a 16,3).

Per questo motivo si può legittimamente sostenere che noi italiani invecchiamo di più ma invecchiamo peggio.

Ad esempio il numero ideale di posti-letto in residenze sanitario-assistenziali è pari a 50-60 ogni 1.000 abitanti over 60 (la media Ocse è pari a 49,7) ma il dato italiano si ferma a 19,2, e solamente Turchia, Lettonia e Polonia stanno peggio di noi.

Nel rapporto si rileva che “si tratta di un dato preoccupante, un segnale che indica in modo evidente il ritardo che caratterizza il nostro Paese rispetto al resto d’Europa”.

E molto forti sono i divari regionali.

Se l’Umbria vanta infatti appena 3,5 posti letto, seguita da Campania (5) e Calabria (5,4), in Piemonte si sale a 40,9, poco sotto la media Ocse. E la presenza di strutture di assistenza è particolarmente carente proprio nelle regioni del Sud, dove maggiore è l’invecchiamento.

Di chi è la proprietà delle 12.000 strutture residenziali italiane?

Il 2% sono pubbliche, mentre la quota restante è di privati accreditati con il sistema sanitario nazionale (il 36% sono privati non profit, il 22% privati profit e il 15% enti religiosi).

I posti letto in quelle strutture sono sì aumentati, dal 2005 e al 2015, del 3,3%, ma tale crescita non è risultata essere al passo con l’incremento della domanda di assistenza.

In questo contesto un’importante risposta che le famiglie hanno fornito alla crescente domanda di assistenza è stata rappresentata dall’affidarsi alle badanti, aumentate del 50% negli ultimi 5 anni. In media però la spesa si attesta, in questo caso, a 920 euro al mese, per un totale di 9 miliardi per 1,5 milioni di anziani. Una soluzione quindi che può permettersi solo una parte delle famiglie italiane.

In un’intervista, Enzo Costa, presidente di Auser, un’associazione impegnata a promuovere l’invecchiamento attivo, anche considerando i dati contenuti nel rapporto citato, ha sostenuto che l’Italia è decisamente in ritardo quanto a politiche pubbliche volte a fronteggiare il processo di invecchiamento della popolazione.

Secondo Costa, oltre a dotare il nostro Paese di un maggior numero di posti letto in strutture residenziali, le priorità che dovrebbero contraddistinguere le politiche pubbliche sono diverse.

Innanzitutto devono essere realizzati  dei migliori servizi domiciliari, in quanto oggi solo il 42% dei Comuni garantisce l’assistenza domiciliare integrata.

Poi potrebbero essere previsti degli incentivi che favoriscano la costruzione di ascensori: solo il 24% delle abitazioni in cui vivono gli anziani hanno un ascensore e questo significa per molti non poter uscire di casa.

Inoltre dovrebbero essere attuati adeguati interventi di natura urbanistica. Infatti, ad esempio, se spariscono dai quartieri i negozi spariscono anche dei luoghi di socialità importanti per gli anziani.


Rinviato il congresso del Pd? Di male in peggio

22 giugno 2018

Nel corso della prossima riunione dell’assemblea nazionale del Pd, prevista per il mese di luglio, era stato ipotizzato che fosse convocato il congresso, nell’ambito del quale sarebbe stato eletto, con le primarie, il nuovo segretario. E’ probabile invece che il congresso sia rinviato. 

E’ in un comunicato emesso dall’agenzia di stampa Askanews che si riferisce del probabile rinvio del congresso.

Tale comunicato è stato recepito da alcuni giornali, tra i quali “Il Sole 24 ore”.

Perché il rinvio del congresso?

Sarebbe il frutto di una decisione di Renzi il quale non avrebbe individuato un candidato credibile, a lui vicino (ad esempio Delrio avrebbe rifiutato di candidarsi), da opporre a Zingaretti, presidente della Giunta regionale del Lazio e possibile candidato della sinistra del Pd.

Inoltre Renzi sta pensando a candidare se stesso ma per questa possibilità avrebbe bisogno di più tempo ed infine se non si tenesse il congresso, entro tempi brevi, lo stesso Renzi potrebbe gestire le candidature relative alle elezioni per il Parlamento europeo che si svolgeranno nei primi mesi del 2019, perché resterebbero in funzione gli attuali organismi nei quali Renzi ha, o dovrebbe avere, ancora la maggioranza.

E poi, se ci dovessero essere le elezioni politiche anticipate nel 2019, ugualmente, Renzi potrebbe gestire le candidature.

Nel frattempo Martina verrebbe confermato reggente e nemmeno eletto segretario dall’assemblea.

Si ipotizza poi che la stessa riunione dell’assemblea potrebbe svolgersi non a luglio, ma a fine anno.

Io credo che rinviare il congresso sarebbe un grave errore.

Per almeno due motivi.

Infatti, è necessario scuotere il Pd dall’attuale situazione di stasi, pericolosa non solo per questo partito ma per il nostro Paese, considerando che il nuovo governo si sta sempre di più caratterizzando come un governo di destra estrema, che va assolutamente contrastato con efficacia.

Affinchè si possa raggiungere questo obiettivo è indispensabile eleggere con le primarie un nuovo segretario con pieni poteri, autorevole, completamente autonomo rispetto a Renzi, il cui ruolo altrimenti non verrebbe ridimensionato, come necessario sia perché ormai inviso a gran parte dell’elettorale sia perché uno dei maggiori responsabili della disfatta elettorale del 4 marzo scorso.

Inoltre un vero congresso risulta non procrastinabile perché dovrebbe essere l’occasione per analizzare le vere cause della disfatta elettorale e per individuare le azioni da realizzare per rigenerare il Pd, per rinnovarlo profondamente, insomma, a mio avviso, per tornare all’impostazione originaria in base al quale si decise di dare vita a questo partito (il vero Pd forse non è mai nato).

Se invece il congresso sarà rinviato, il Pd correrebbe realmente il rischio di estinguersi, più o meno lentamente ma progressivamente.


Pierluigi Ciocca, 7 interventi di politica economica per crescere di più

19 giugno 2018

E’ noto che nonostante i recenti progressi l’economia italiana è ancora caratterizzata da problemi di natura strutturale che ne limitano le potenzialità di crescita del Pil e dell’occupazione. Pierluigi Ciocca, un passato in Banca d’Italia, anche come vice direttore generale dal 1995 al 2006, autore di numerose pubblicazioni riguardanti in prevalenza l’economia del nostro Paese, ha individuato 7 interventi di politica economica rivolti appunto ad aumentare considerevolmente, come necessario, la crescita. 

Tali interventi, i quali contemporaneamente sostengano la domanda globale ed accrescano la produttività, sono evidenziati in un recente articolo scritto da Ciocca per  “Il Sole 24 ore”.

“Il disavanzo di bilancio va azzerato, e quindi il debito pubblico bloccato… Occorrono una severa revisione, politica e non solo contabile, delle spese gonfiate da trasferimenti inutili, inefficienze, corruzione, sottoutilizzo del formidabile potere monopsonistico della Pubblica Amministrazione nelle forniture e negli appalti; un colpo duro inferto all’evasione…

Gli investimenti in infrastrutture costituiscono l’unica misura di bilancio capace di sostenere tanto la domanda quanto la produttività…

Il diritto dell’economia dev’essere ripensato in modo organico e ampiamente riscritto. L’ordinamento attuale appesantisce i costi del produrre e frena la produttività…

E’ cruciale promuovere la concorrenza, soprattutto quella dinamica. Come insegna Schumpeter, la concorrenza a colpi d’innovazioni, ancor più della stessa concorrenza attraverso i prezzi, è il propellente della ‘distruzione creatrice’, della riallocazione delle risorse, dello sviluppo capitalistico.

Dev’essere avviata a correzione una distribuzione altamente sperequata dei redditi, dei patrimoni e soprattutto delle opportunità individuali. Al di là dei profili morali e d’equità, i cittadini svantaggiati sono esclusi dal contribuire al progresso del Paese, specialmente al Sud.

Urge una strategia per il Sud. Essa non può che imperniarsi su una rinnovata dotazione delle infrastrutture, fisiche e immateriali. Sono drammaticamente carenti nel Mezzogiorno, con pesante svantaggio per i cittadini e per le imprese meridionali…

Nell’Eurozona all’attuale rigore alla Hayek occorre sostituire il rigore alla Keynes: equilibrio di bilancio, sì, ma unito a investimenti pubblici utili, cospicui e capaci di autofinanziarsi, ammettendo la ‘golden rule’ per la loro copertura con debito all’avvio. Il problema non è l’euro. L’euro è un’ottima moneta. E’ anche internazionalmente domandata. Ha assicurato il bene della stabilità dei prezzi, unito a bassi tassi dell’interesse. Il problema è nel governo dell’economia dell’Euroarea, nell’impostazione di fondo della sua politica economica, a cominciare da quella tedesca…”.

E così conclude Ciocca:

“Basteranno le sette ‘cose’, qualora un governo le realizzasse?

Sì, basteranno, se le imprese italiane, sollecitate dalla concorrenza in un contesto reso meno sfavorevole, sapranno rispondere alla sfida.

La classe imprenditoriale deve pretendere che la politica crei quel contesto. Al tempo medesimo, le imprese devono ricercare il profitto, non negli aiuti esterni, bensì al loro interno: l’accumulazione di capitale, la scala efficiente del produrre, l’innovazione, il progresso tecnico.

Sono, queste, loro responsabilità. Nel Novecento l’hanno fatto. Oltre che nell’età giolittiana, l’hanno fatto quando la prospettiva del Mercato comune le indusse, per sopravvivere, a investire il 30% del Pil”.

A me sembra che i 7 interventi proposti da Ciocca rappresentino addirittura un organico ed esaustivo  programma di politica economica che dovrebbe essere alla base dell’azione in campo economico del nuovo governo.

Di qui il loro notevole interesse.

Ma sono altrettanto importanti le considerazioni finali di Ciocca.

Anche se fosse attuato quel programma di politica economica, sarebbe indispensabile che le imprese sviluppassero gli investimenti, privilegiando l’innovazione e il progresso tecnico.


I nonni con i bambini contro la povertà educativa

13 giugno 2018

Presentato a Firenze un progetto che coinvolgerà quattro regioni, finanziato dal fondo per il contrasto alla povertà educativa  minorile, che coinvolgerà 300 nonni volontari, 1.000 bambini da 0 a 6 anni, 16 fra comuni e frazioni e 4 regioni: Lombardia, Toscana, Umbria e Basilicata. Il progetto è denominato “I nonni come fattore di potenziamento della comunità educante a sostegno delle fragilità genitoriali”. 

Capofila del progetto è Auser Lombardia

Si ricorda che l’Auser è una associazione di volontariato e di promozione sociale, impegnata nel favorire l’invecchiamento attivo degli anziani e valorizzare il loro ruolo nella società.

Le sue attività sono  rivolte in maniera prioritaria agli anziani, ma sono aperte alle relazioni di dialogo tra generazioni, nazionalità, culture diverse.

L’Auser è stata costituita nel 1989 dalla Cgil e dal sindacato dei pensionati Spi-Cgil.

Il progetto sarà realizzato nell’ambito del bando per la prima infanzia affidato per la gestione da fondazione con il Sud all’impresa sociale “Con i bambini”.

Cosa dovrebbe avvenire?

I nonni volontari, con il loro bagaglio di esperienza e voglia di mettersi in gioco, daranno una mano  concreta a tante famiglie che si trovano in difficoltà, famiglie fragili che spesso vivono in territori dove i servizi scarseggiano.

Tutti seguiranno adeguati corsi di formazione e diventeranno a loro volta “nonni leader” in modo tale da trasferire ad altri nonni l’esperienza e diventando così dei veri e propri moltiplicatori di solidarietà.

Con l’aiuto dei nonni volontari i bambini e i loro genitori potranno contare su un accesso ai servizi del territorio più ampio e flessibile con forme di prolungamento dell’orario; i nonni potranno accompagnare i bambini a scuola o al nido.

Verranno realizzati spazi gioco e attività di laboratorio in cui le risorse dei volontari Auser potranno affiancare il personale educativo già coinvolto.

Le sedi Auser verranno utilizzate per accogliere, informare, creare comunità, organizzare momenti di formazione, informazione sulle tematiche inerenti la cura e la crescita del bambino. Saranno, inoltre, luoghi in cui condividere laboratori e momenti di festa.

Tutti gli interventi saranno finalizzati a  contrastare l’isolamento socio-culturale e la povertà educativa delle famiglie e a prevenire il rischio di deprivazione dei bambini.

In Lombardia sono stati scelti il grande hinterland milanese di Sesto San Giovanni e due comuni della provincia di Cremona dove molte famiglie vivono in casolari isolati e lontano da scuole e servizi; nel senese in Toscana si prevedono attività di sostegno a genitori “single” e a famiglie di migranti; in Umbria  sono stati scelti piccoli comuni e realtà che stanno accogliendo le comunità terremotate e in Basilicata  quattro comuni che hanno problemi di spopolamento e di integrazione dei migranti.

Il progetto ha come soggetto capofila Auser Lombardia ed è costituito da una vasta rete di partner tra cui Auser Toscana, Auser Umbria, Auser Basilicata, università Bicocca di Milano, università di Firenze, la fondazione Asilo Mariuccia di Milano, l’Istituto degli innocenti di Firenze, Comuni e cooperative sociali.

Durerà 3 anni, metterà radici creando una rete di solidarietà solida e strutturata.

Il finanziamento previsto supera i 2 milioni e 150.000 euro.

Il progetto è stato selezionato da “Con i Bambini” nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Il fondo nasce da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, il Forum Nazionale del Terzo Settore e il Governo.

Sostiene interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori.

Per attuare i programmi del fondo, a giugno 2016 è nata l’impresa sociale “Con i Bambini”, www.conibambini.org, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata dalla fondazione “Con il Sud”.

Il progetto mi sembra molto interessante.

Ovviamente non sconfiggerà completamente il grave problema rappresentato dalle povertà educativa minorile.

Può costituire, però, senza alcun dubbio, un modello che, se avrà successo, potrà essere replicato in altri territori del nostro Paese, affiancando l’operato che altri soggetti, enti, istituzioni, pubbliche amministrazioni, dovranno portare aventi per contrastare quel problema, operato quest’ultimo che dovrà essere anch’esso rafforzato considerevolmente.


Gig economy, un milione di italiani fanno dei “lavoretti”

12 giugno 2018

Circa un milione di italiani lavora per le piattaforme internet che offrono collaborazioni occasionali e di questi i rider, coloro che si occupano di consegne a domicilio (pasti e non solo) corrispondono al 10% del totale. Mentre sono tra 150 e 200.000 le persone che ne dispongono come unica fonte di reddito. E’ la prima fotografia approfondita della gig economy del nostro Paese, di coloro che si affidano a piattaforme internet che incrociano domanda e offerta di lavoro: vengono gestiti spesso da un algoritmo e il rapporto con chi paga dura solo per la singola prestazione e si rinnova ogni volta. 

Il giudizio su  queste nuove forme di lavoro non è univoco: secondo i più critici, una nuova forma di cottimo se non di sfruttamento, per altri sono soltanto nuove forme di lavoro introdotte dalle nuove tecnologie e dalla rivoluzione informatica che saranno sempre più diffuse e che pertanto hanno bisogno di una legislazione apposita e non si può, come vorrebbero alcuni, considerarlo in ogni caso lavoro dipendente.

Questi dati sono stati resi noti al festival dell’economia di Trento, nel corso del quale sono stati anticipati i primi risultati dello studio curato dalla fondazione Rodolfo Debenedetti, appunto sulla gig economy in Italia, che sarà presentato nella sua completezza il prossimo 4 luglio.

Lo studio in questione non mancherà di sollevare polemiche.

Uno dei dati, ad esempio, rivela che il 45% dei lavoratori si dice soddisfatto o abbastanza soddisfatto del lavoro svolto in questo modo e il 50% si dice favorevole a farlo con le regole che vengono proposte da chi commissiona la prestazione.

Più precisamente, secondi i due ricercatori Paolo Natacchioni e Saverio Bombelli, estensori dello studio, i “gig workers” sono tra i 700.000 e un milione di italiani, con una forchetta tra l’1,8 e il 2,6% della popolazione.

Per una quota compresa tra 150 e 200.00 persone i “lavoretti” come vengono definiti sono l’unica fonte di reddito, mentre per tutti gli altri si tratta di occupazioni occasionali che vengono aggiunte all’impiego vero e proprio, sia da chi ha contratti da dipendente, sia da chi è un autonomo o partita Iva.

Come anticipato, i riders non sono più del 10% del totale: la stragrande maggioranza della gig economy è coperta da chi lavora da casa o comunque da remoto per servizi “clouding”, in pratica da chi elabora on line dati, gestisce piattaforme internet o svolge traduzioni.

Ecco spiegato perchè la meta dei gig workers è donna. Non così tra i riders, dove la componente femminile si ferma al 10%.

Altri dati faranno discutere: il 70% dei lavoratori occasionali ha un livello di istruzione superiore, dal diploma di liceo al master e solo il 3% è immigrato.

Il guadagno medio lordo è di 12 euro l’ora e solo il 34% dichiara di conoscere i diritti legati al contratto di lavoro che hanno accettato e le forme di tutela annesse.

Al momento prevale l’aspetto occasionale del lavoro, visto che il 50% dei gig workers vi si dedica non più di 1-4 ore a settimana, mentre il 20% tra 5 e 9 ore. Anche se una persona su due sostiene che vorrebbe lavorare di più.

Come migliorare la situazione di tali lavoratori?

Il giurista Pietro Ichino ha, a questo proposito, dichiarato: “Se vogliamo mettere a fuoco e risolvere il problema occorre superare la distinzione tradizionale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e dettare delle discipline specifiche per il lavoro organizzato attraverso la piattaforma digitale.

Per esempio prevedere che il titolare della piattaforma debba interfacciarsi con l’Inps e pagare le retribuzioni rispettando un minimo retributivo e una contribuzione minima essenziale in campo contributivo e antinfortunistico” .


La morte di Giuseppe Uva resta senza colpevoli

7 giugno 2018

Assolti due carabinieri e sei poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva, avvenuta a Varese circa dieci anni fa. E’ la sentenza della Corte d’assise d’appello di Milano: i giudici hanno in sostanza confermato il verdetto di primo grado. Le accuse erano di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona.

 La sentenza di primo grado venne impugnata dalla Procura generale di Milano.

Per la prima volta, fu il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo a chiedere la condanna degli imputati, perché la contenzione fisica a cui sarebbe stato sottoposto il 43enne, spiegava, per “violenta e ingiusta durata”, doveva ritenersi “causativa del grave stato di stress che innestandosi in una preesistnte patologia cardiaca ha determinato l’evento aritmico terminale e il decesso di Giuseppe Uva”.

Per questo aveva chiesto condanne per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale,  a 13 anni di carcere per i due carabinieri e a dieci anni e sei mesi per i sei poliziotti.

Cosa successe a Giuseppe Uva?

Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 2008 Giuseppe, 43 anni, venne portato prima alla caserma dei carabinieri di Varese e da lì in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio.

La mattina dopo morì.

Il Gip, a suo tempo, scrisse che “Giuseppe Uva è stato percosso da uno o più presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La stanza citata era nella caserma dei carabinieri di Varese.

C’era anche un testimone, Alberto Biggiogero, che, con cinque anni di ritardo, venne ascoltato. Il confronto durò più di quattro ore.

Biggioggiero era con lui la sera in cui vennero fermati, ubriachi, dai carabinieri mentre spostavano transenne nel centro di Varese. E ai magistrati disse di averlo sentito urlare e chiedere aiuto una volta in caserma.

Nel febbraio del 2017, Biggioggiero verrà arrestato per aver ucciso suo padre dopo una lite.

La presidente di Radicali Italiani, Antonella Soldo, ha rilasciato la seguente dichiarazione, relativamente all’esito del processo d’appello.

“La morte di Giuseppe Uva resta senza colpevoli. Eppure quando un uomo muore nelle mani dello Stato un responsabile c’è: ed è lo Stato stesso.

L’assoluzione perché il fatto non sussiste è un’ingiustizia inferta al corpo martoriato di Uva, e un oltraggio al dolore dei suoi familiari.

Una sentenza del genere nega che l’arresto di Uva sia avvenuto illegalmente e che egli sia stato colpito a morte e che sia stato sottoposto senza ragione a un trattamento sanitario obbligatorio.

Come spesso avviene in questi casi, decine di occhi di pubblici operatori hanno assistito al suo martirio, senza intervenire. Dalla caserma all’ospedale.

Difendere l’onore dell’arma dei carabinieri non vuol dire occultare le responsabilità di alcuni dei suoi indegni esponenti, vuol dire stare dalla parte di chi non ha più voce. Come Giuseppe Uva, e come sua sorella e sua nipote, che da sole si sono battute per rompere un muro di silenzio e ostilità.

Basti ricordare il comportamento del primo pubblico ministero a cui il caso era stato affidato, Agostino Abate: alcuni dei suoi interrogatori si trovano ancora su Youtube e danno la misura della sproporzione di mezzi tra vittime e responsabili in cui questa vicenda si è sviluppata.

Da parte di Radicali italiani tutta la solidarietà alla famiglia di Uva, e l’auspicio che il ricorso in Cassazione ripristini la giustizia per Uva, e per la nostra Repubblica”.


Ci ricordiamo che il 10 giugno in 7 milioni voteranno in 761 comuni?

5 giugno 2018

Tranne i cittadini direttamente interessati, non sono molti gli italiani al corrente del fatto che il prossimo 10 giugno si voterà per il rinnovo di 761 consigli comunali. Gli elettori che potranno votare sono quasi 7 milioni.

Di questi 761 comuni, 106 hanno una popolazione superiore a 15.000 abitanti (di cui 20 comuni capoluogo di provincia) e 652 inferiore a 15.000 abitanti.

La distinzione è importante perché nei comuni con più di 15.000 abitanti si voterà con il cosiddetto doppio turno. Cioè se nessun candidato a sindaco otterrà il 50% più uno dei voti espressi, andranno al ballottaggio – ci sarà quindi un secondo turno il 24 giugno – i due candidati con il maggior numero di voti.

Nei comuni con meno di 15.000 abitanti ci sarà un solo turno, risultando eletto il candidato a sindaco che otterrà il maggior numero dei voti, pur se non dovesse raggiungere il 50%.

I capoluoghi di provincia coinvolti saranno Brescia, Sondrio, Imperia, Treviso, Vicenza, Massa, Pisa, Siena, Ancona, Terni, Viterbo, Teramo, Avellino, Barletta, Brindisi, Catania, Messina, Ragusa, Siracusa e Trapani. Nello stesso giorno si voterà per rinnovare i consigli circoscrizionali del III e del VIII municipio di Roma Capitale.

Di questi superano i 100.000 abitanti Ancona, Brescia, Catania, Messina, Siracusa, Terni e Vicenza.

In tutta Italia sono sei i comuni che sarebbero dovuti andare al voto, ma nei quali non sono state presentate liste elettorali. Si tratta di un comune calabrese, San Luca, noto per essere il “quartier generale” della ‘ndrangheta, e 5 comuni sardi (Austis, Magomadas, Ortueri, Putifigari e Sarule). Questi comuni saranno commissariati.

Il comune di San Luca è stato sciolto per infiltrazioni mafiose il 17 maggio 2013 dal Consiglio dei ministri e da allora non ha un sindaco né un consiglio comunale.

Le elezioni comunali del 10 giugno rappresentano un appuntamento importante che non dovrebbe essere trascurato.

Per vari motivi.

Per la popolazione interessata, quasi 7 milioni di potenziali elettori, perché sono 20 i capoluoghi di provincia coinvolti e perché saranno un primo test elettorale in cui si potrà anche verificare, parzialmente, il gradimento nei confronti della formazione del nuovo governo, a maggioranza Lega e Movimento 5 Stelle.

Inoltre saranno interessanti tali elezioni perché dimostreranno che sarà possibile già il 10 giugno, o al massimo il 24, conoscere il tipo di governo che amministrerà, probabilmente per 5 anni, i comuni interessati.

Ciò dimostra, come del resto avviene anche in seguito alle elezioni regionali, che sarebbe possibile individuare per il governo nazionale un sistema elettorale che consenta in tempi molto brevi di conoscere la maggioranza in grado di guidare, dal punto di vista politico, l’Italia.

Certo, sarebbe necessario, probabilmente, introdurre un sistema presidenziale, e non parlamentare come quello attualmente vigente, e per questo sarebbe necessario modificare la Costituzione. Ma, eventualmente, il sistema presidenziale potrebbe essere per così dire “temperato”, non contraddistinto da un eccessivo aumento dei poteri del presidente della Repubblica, perché si tratterebbe di eleggere anche il presidente della Repubblica, a questo punto tramite un’elezione diretta, e non solo il Parlamento.

Il modello di riferimento sarebbe il sistema elettorale francese, a doppio turno, per l’elezione del presidente della Repubblica. Da notare che in quel Paese, solo successivamente si elegge il Parlamento. Ma non necessariamente il sistema elettorale da introdurre in Italia dovrebbe essere uguale a quello francese e potrebbe essere appunto caratterizzato da minori poteri attributi al presidente eletto direttamente.


Nato il nuovo governo, contento Renzi

1 giugno 2018

Dopo molti giorni da quando si sono tenute le elezioni politiche del 4 marzo si è formato il nuovo governo guidato da Giuseppe Conte e sostenuto da leghisti e grillini. Il processo di formazione del governo è stato complesso e in più occasioni si è temuto che si dovesse andare a nuove elezioni. Tale eventualità era molto temuta, tra gli altri, da Matteo Renzi, il quale quindi è senza dubbio molto contento che si sia alla fine formato il governo Conte.

Sembra addirittura che quando, nel recente passato, nel corso di una telefonata, Salvini aveva detto a Renzi che vi erano concrete possibilità che si dovesse ricorrere a nuove elezioni, l’ex premier si dimostrò molto preoccupato.

Era certo in buona compagna con altri dirigenti del suo partito, convinti che l’esito di nuove elezioni per il Pd sarebbe stato molto negativo, con un nuovo e pesante insuccesso.

Ma Renzi si sarebbe dovuto preoccupare invece, come del resto l’intero gruppo dirigente del Pd, di analizzare le cause della disfatta elettorale, tra le quali la sua leadership, e di promuovere gli interventi più opportuni per affrontare tali cause, tra i quali la necessità di tenersi in disparte almeno per qualche anno, astenendosi dalla volontà di influenzare le principali decisioni di quel partito.

In realtà Renzi non si è assolutamente messo ai margini né peraltro i suoi oppositori hanno potuto o voluto provare realmente a farlo.

Comunque, a parte Renzi, il Pd fino ad ora non ha analizzato veramente le diverse cause della disfatta elettorale, come già rilevato, né, pertanto, ha nemmeno abbozzato una strategia per rilanciarsi.

A mio avviso, tre sono state le cause più importanti della disfatta elettorale del Pd: una concezione della politica da parte della grande maggioranza del gruppo dirigente, a livello nazionale e locale, come pura e semplice ricerca e gestione del potere, anche personale, l’incapacità di comprendere le esigenze della maggioranza dei cittadini, in primo luogo le paure diffuse soprattutto tra i ceti sociali più deboli, riguardanti i problemi inerenti la sicurezza personale, anche in seguito alla presenza dei migranti, e relative alla situazione economica e occupazionale, in conseguenza dell’aumento delle diseguaglianze verificatosi nel periodo della crisi.

Di qui la percezione del gruppo dirigente del Pd come componente importante del cosiddetto establishment.

Se queste cause non vengono affrontate seriamente o quanto meno se non si tenta neppure di affrontarle, il futuro del Pd sarà tutt’altro che roseo e il rischio di estinzione di questo partite è reale.

Non mi sembra che l’attuale gruppo dirigente, né a livello nazionale né a livello locale, intenda o sia in grado di portare avanti un dibattito che sia contraddistinto dall’analisi delle problematiche appena citate.

Di qui la necessità di un nuovo gruppo dirigente, composto anche dai numerosi amministratori locali che hanno ben governato numerosi comuni o regioni e da iscritti ed elettori in stretto contatto con l’ampio associazionismo che, soprattutto a livello locale, si manifesta, in varie forme, in Italia.

Ma la formazione di questo nuovo gruppo dirigente difficilmente potrà avvenire per scelta esplicita di quello vecchio ma dovrà essere richiesta ed ottenuta in seguito al forte impegno di  un cospicuo numero di iscritti ed elettori di quel partito.

Non c’è alternativa se si vuole davvero salvare il Pd e con esso la sinistra italiana e, soprattutto, fare in modo che, nel breve-medio periodo, si adottino nel nostro Paese delle politiche di sinistra senza lasciare campo libero alla destra che ora ha trovato piena rappresentanza nel nuovo governo sostenuto da leghisti e grillini.