Il 40% dei detenuti in carcere per droga, a causa della legge Fini-Giovanardi

29 giugno 2014

Il dato di maggiore interesse risultante dal 5° libro bianco sulla legge Fini-Giovanardi è che il 38,6% dei detenuti presenti nelle carceri italiani sono imputati o condannati per reati di droga. Di qui la necessità di modificare quella legge.

Il libro bianco in questione è stato realizzato da La Società della Ragione Onlus, Forum Droghe, Antigone, Cnca e con l’adesione di Cgil, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, Lila, Magistratura Democratica, Unione Camere Penali Italiane.

I principali risultati del rapporto sono che nel 2013, su un totale di 59.390 ingressi negli istituti penitenziari, il 30,56% era per violazione dell’art. 73 del DPR 309/90 mentre quasi il 40% delle presenze in carcere al 31/12/2013 sono dovute direttamente alla legge sulle droghe.

E nonostante i ripetuti proclami gli affidamenti terapeutici dei tossicodipendenti restano al di sotto del dato precedente all’approvazione della legge, ed oggi avvengono per lo più dopo un periodo di detenzione.

Secondo le associazioni che hanno realizzato il rapporto resta irrisolto il grave problema dei detenuti che stanno scontando pene ritenute illegittime dalla Corte Costituzionale: in assenza di un intervento legislativo si rischia il collasso dei tribunali, costretti ad esaminare una per una le richieste di ricalcolo delle pene o peggio si rischia di lasciare scontare alle persone pene ingiuste.

Per quanto riguarda il sistema di repressione se si sommano le denunce per hashish, per marijuana e per le piante si raggiunge la cifra di 15.347 casi (45,37% del totale).

La “predilezione” del sistema repressivo per la cannabis è confermata dal numero di operazioni che aumentano, in controtendenza con tutte le altre sostanze, del 35,24% rispetto al 2005, si sottolinea nel libro bianco.

Quindi cosa sarebbe necessario fare?

Per le associazioni citate serve una compiuta depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze destinati all’uso personale, anche di gruppo.

Serve poi una regolamentazione legale della produzione e della circolazione dei derivati della cannabis e della libera coltivazione a uso personale.

Serve il rilancio dei servizi per le dipendenze e delle politiche di “riduzione del danno”.

Serve il superamento del fallimentare modello autocratico del dipartimento antidroga, con una cabina di regia che veda coinvolti tutti: enti, istituzioni, privato sociale e consumatori e che convochi entro l’anno la conferenza nazionale prevista dal testo unico e dimenticata da troppi anni.

Tali richieste mi sembrano ampiamente condivisibili e per recepirle mi sembra indispensabile che il Parlamento approvi quanto prima una legge radicalmente diversa dalla Fini-Giovanardi.


Chi sono i senza dimora?

25 giugno 2014

Secondo un’indagine realizzata dalla fondazione De Benedetti la maggior parte dei senza dimora sono uomini, che hanno perso il lavoro o si sono separati, ma a Roma è alta anche la componente femminile. Il 65% non è mai più tornato in una casa.

L’indagine è stata effettuata a Roma e sono state censite 3.276 persone senza dimora, pari allo 0,11% della popolazione della capitale.

L’87% sono uomini ma a Roma rispetto ad altre città è maggiore la componente femminile.

La loro situazione può essere considerata cronica, soprattutto per gli italiani. Il 65% degli intervistati non è più tornato in una vera casa.

Il numero dei senzatetto censiti dalla fondazione De Benedetti risulta molto più basso rispetto al censimento Istat, realizzato nel 2011, sui senza dimora.

L’istituto di statistica, contando il numero di persone che tra novembre e dicembre 2011 aveva utilizzato almeno un servizio mensa o di accoglienza notturna nel comune, parlava infatti di circa 8.000 persone (7.827), sempre a Roma, mentre rilevazioni precedenti si attestavano intorno alla cifra di 6.000.

Rispetto all’Istat, però, la fondazione De Benedetti non ha preso in considerazione gli ospiti degli ostelli, le persone in situazioni alloggiative temporanee e quanti vivono in alloggi per interventi di supporto sociale specifici.

L’indagine è senza dubbio interessante e a me ha suscitato la necessità di tentare di rispondere ad una domanda: a Roma e in Italia, più in generale, si attua una politica rivolta a ridurre stabilmente il numero dei senza dimora?

Io non credo che si stia portando avanti una politica di questa natura.

Vi sono interventi, senza dubbio utili e necessari, realizzati soprattutto da associazioni di volontariato, per aiutare le persone senza dimora.

Ma in Italia non c’è una politica organica volta a diminuire stabilmente il numero delle persone senza dimora perché non c’è una politica organica tendente ad affrontare i problemi creatisi in seguito all’aumento del numero dei nuovi poveri, di coloro che, soprattutto a causa del manifestarsi della crisi, hanno visto peggiorare considerevolmente le proprie condizioni economiche.

E per ottenere risultati apprezzabili non penso che siano necessarie risorse finanziarie molto consistenti e non vale quindi la giustificazione rappresentata dai notevoli problemi che da tempo caratterizzano il bilancio pubblico.

Del resto pur rilevando la necessità di affrontare con impegno quei problemi, anche riducendo la spesa pubblica, determinate categorie di questa spesa non dovrebbero essere diminuite ed anzi potrebbero essere aumentate.

La cosiddetta “spending review” infatti deve puntare ad eliminare i veri sprechi, nell’ambito della spesa pubblica, che sono molti, ma, ad esempio, utilizzare le sufficienti risorse finanziarie per contrastare la povertà, e quindi anche per diminuire il numero dei senza dimora, non può e non deve essere considerato uno spreco, tutt’altro.

Almeno io la penso così.


In Italia c’è l’eutanasia, ma clandestina

23 giugno 2014

In Italia non c’è una legge che consenta l’eutanasia. In realtà in molti ospedali si pratica l’eutanasia, clandestinamente. Secondo l’associazione Luca Coscioni, che ha presentato in Parlamento una proposta di legge che preveda, in determinati casi, la possibilità di ricorrere all’eutanasia, sono circa 20.000 i casi di eutanasia clandestina che si registrano nel nostro Paese, ogni anno.

Nella newsletter quindicinale su temi biotici e diritti civili, l’associazione Luca Coscioni cita le dichiarazioni di due medici che hanno ammesso di avere da anni aiutato  a morire i loro malati più gravi.

Si tratta di Mario Sabatelli, medico dell’ospedale cattolico “Gemelli” e di Giuseppe Maria Saba, medico del policlinico Umberto I, sempre di Roma.

I due medici non hanno parlato di eutanasia, preferiscono utilizzare un altro termine, “desistenza terapeutica”, e lo fanno in buona fede perché parlando di eutanasia rischierebbero anni di carcere.

Saba ha detto, a tale proposito, “Non ne posso più del silenzio su cose che tutti noi rianimatori conosciamo”.

Nella newsletter si invitano i tanti altri  medici che compiono – per pietà e per coraggio – lo stesso gesto ad uscire allo scoperto, per spingere il Parlamento a discutere di come si muore in Italia e ad esaminare la  legge dell’associazione Luca Coscioni sulla eutanasia.

Exit afferma che sono raddoppiati gli italiani che si iscrivono alla associazione per poter andare a morire in Svizzera.

A maggior ragione i medici dovrebbero aiutare l’associazione Luca Coscioni ad evitare questo “turismo eutanasico”.

Mentre in tutto il mondo questo  tema  viene affrontato (in queste ultime due settimane il Quebec e la comunità autonoma delle Canarie stanno approvando leggi sulla “morte degna”) si faccia in modo che l’Italia non resti il solo paese in cui un Parlamento pauroso ed ignavo non risponde nemmeno all’appello del Capo dello Stato e di quanti – Chiara Rapaccini, compagna di Monicelli, Luciana Castellina, compagna di Lucio Magri ed il figlio di Carlo Lizzani, Francesco –  hanno vissuto il dramma di  persone che non potendo ricorrere alla eutanasia sono state costrette, come migliaia di altri malati ogni anno,  ad una “morte indegna”.

Infine l’associazione sollecita anche il premier  Renzi a rispondere al suo appello: pensa di governare fino al 2018 ignorando il tema dell’eutanasia, su cui quasi il 70% degli italiani esprime il proprio favore?

Io credo che l’associazione Luca Coscioni abbia ragione.

Lo sappiamo tutti che l’eutanasia clandestina esiste. Ma ancora una volta vengono privilegiati i malati che conoscono il medico “giusto”, sensibile a determinate problematiche.

E i malati che hanno buone condizioni economiche, i quali possono andare in Svizzera.

Ma gli altri malati? Sono costretti a morire, nella generalità dei casi, soffrendo moltissimo.

Mi sembra evidente, quindi, che sia necessaria una legge sull’eutanasia, che la consenta in determinati casi e che, quanto meno, il Parlamento discuta quanto prima la proposta di legge presentata già da mesi.

Sarebbe anche un modo molto concreto per avvicinare le istituzioni ai cittadini, affrontando un tema molto sentito e molto importante.


Tutto bene nelle famiglie tradizionali?

22 giugno 2014

Spesso si sostiene la superiorità delle cosiddette famiglie tradizionali rispetto alle famiglie che generalmente non vengono definite tali. Ciò avviene soprattutto quando si esamina la  possibilità di prevedere matrimoni tra gay o anche solamente unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Ma davvero le cosiddette famiglie tradizionali sono superiori alle altre?

Non sempre, io credo.

Si può rispondere a quella domanda rilevando che all’interno delle famiglie tradizionali emergono frequenti ed inaccettabili forme di violenza.

Non faccio riferimento tanto o soltanto ai numerosi fatti di cronaca nei quali si consumano addirittura omicidi tra i genitori, in cui quasi sempre il responsabile è il marito, e nei quali vengono coinvolti anche i figli, uccisi insieme ad un genitore o da un genitore.

Anche tralasciando questi raccapriccianti avvenimenti, è noto che nelle famiglie tradizionali si sviluppano, frequentemente, spesso in modo nascosto, forme di violenza ripetute nel tempo che non si esplicano in omicidi, ma che possono essere sia fisiche che psicologiche.

E anche tali forme di violenza sono molto pericolose e possono produrre, soprattutto a danno dei figli, degli effetti negativi molto importanti.

Quindi, attenzione a sopravvalutare il ruolo e l’importanza delle famiglie tradizionali, e a considerarle superiori alle altre.

E questo vale anche quando si esprimono giudizi negativi sul crescente numero di divorzi e sulla necessità di ridurlo.

E’ meglio formare nuove famiglie, anche le cosiddette famiglie allargate, piuttosto che mantenere in vita, solo formalmente, famiglie tradizionali che, appunto, possono produrre effetti così gravi, come quelli prima descritti.

E anche per questo, infine, non si comprendono le valutazioni pregiudizialmente negative sulla possibilità che ci siano matrimoni o unioni civili tra persone appartenenti allo stesso sesso.


Anche gli italiani diventano assassini

18 giugno 2014

Nei giorni scorsi alcuni efferati fatti di cronaca hanno suscitato notevole attenzione da parte dei mass media e anche da parte degli utilizzatori di questi strumenti di informazione. Dal fermo del presunto assassino di Yara, alla strage familiare compiuta dal marito che ha ucciso la moglie e i loro due bambini, e al comportamento del “folle” che ha accoltellato a Milano tre persone di cui uno è morto. Ebbene tutti e tre gli uomini coinvolti in queste vicende sono italiani.

Perché questa sottolineatura da parte mia?

Perché generalmente quando vengono compiuti omicidi, in questo periodo, in Italia, si pensa subito, almeno inizialmente, che siano degli immigrati, degli stranieri quindi, i colpevoli.

Come del resto anche l’aumento dei furti che si è verificato negli ultimi anni, prevalentemente nel centro-nord, viene addebitato anch’esso agli immigrati.

E invece no, ci sono anche assassini e rapinatori italiani.

Sembra una banalità, ma non lo è per una parte consistente di noi.

Certamente compiono delitti più o meno violenti anche gli stranieri che vivono in Italia. Ma non solo loro, anche gli italiani ne sono responsabili.

Se ci fossero a disposizione statistiche attendibili, credo che si arriverebbe a concludere che, più o meno, è la stessa la percentuale di persone che “delinquono” sul totale della popolazione sia per gli italiani che per gli stranieri.

Invece la percezione che noi italiani spesso abbiamo è diversa, molto diversa.

Riteniamo che i problemi di sicurezza, che senza dubbio esistono nelle città italiane, siano principalmente attribuibili agli stranieri.

I problemi relativi alla sicurezza non devono essere sottovalutati, devono essere affrontati con le misure più opportune, nel modo necessario, con impegno e anche con interventi “forti” laddove quei problemi sono in notevole crescita e assumono maggiore rilievo.

Però per affrontare, adeguatamente, quei problemi occorre conoscerli davvero, individuarne le cause e non cedere a degli stereotipi che spesso vengono diffusi ad arte da alcuni movimenti politici che proprio su di essi tentano di basare le loro fortune elettorali.

Altrimenti si corre il rischio che i problemi in questione non siano affrontati nel modo migliore e non possano quindi diminuire.


Con la cultura si mangia

17 giugno 2014

Diversamente da quanto pensava Tremonti, con la cultura si mangia. Infatti così potrebbe essere sintetizzato il contenuto del rapporto 2014 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi” elaborato da fondazione Symbola e Unioncamere. Infatti, secondo questo rapporto, il valore aggiunto prodotto dalla cosiddetta filiera culturale italiana – comprendente il valore prodotto dalle imprese culturali e creative e dalle imprese attivate dalla cultura, quelle turistiche in primo luogo – ammonta a 214 miliardi di euro, il 15,3% del valore aggiunto nazionale.

Questo dato più di altri dimostra con evidenza l’importanza della cultura per il sistema economico italiano.

E dimostra anche che l’apporto della cultura per intensificare lo sviluppo economico nazionale potrebbe considerevolmente aumentare, tenendo conto del fatto che molto spesso i nostri beni culturali sono abbandonati a se stessi, non vengono restaurati adeguatamente né valorizzati.

Certo per aumentare notevolmente il Pil, come necessario per ridurre la disoccupazione in misura altrettanto notevole, non si potrà fare a meno di accrescere il peso dell’industria manifatturiera che negli ultimi anni è andato diminuendo.

Ma occorrerà anche accrescere il ruolo economico svolto dalla cultura e dalle attività ad esse collegate.

Altri dati interessanti, comunque, sono contenuti nel rapporto.

Sono 443.458 le imprese del sistema produttivo culturale, il 7,3% del totale delle imprese, generano il 5,4% della ricchezza prodotta in Italia cioè 74,9 miliardi di euro che arrivano ad 80 se si includono anche le istituzioni pubbliche le realtà del non profit attive nel settore della cultura.

Ma gli 80 miliardi ne stimolano altri 134, considerando che l’effetto moltiplicatore dei beni culturali sul resto dell’economia è pari a 1,67.

Così appunto si arriva ai 214 miliardi di cui si scriveva all’inizio.

E gli occupati nelle attività direttamente e indirettamente collegate alla cultura sono circa 1 milione e mezzo.

La provincia aretina si conferma al primo posto sia per valore aggiunto, che per occupati legati alle industrie culturali (rispettivamente 9% e 10,4% del totale dell’economia).

Nella classifica provinciale per incidenza del valore aggiunto del sistema produttivo culturale sul totale dell’economia, seguono Pordenone e Pesaro Urbino, attestate sulla stessa soglia del 7,9%, Vicenza al 7,7% e Treviso al 7,6%. Quindi Roma con il 7,5%, Macerata con il 7,3%, Milano con il 7%, Como con il 6,9% e Pisa con il 6,8%.

Dal punto di vista dell’incidenza dell’occupazione del sistema produttivo culturale sul totale dell’economia, come anticipato, è sempre Arezzo la provincia con le migliori performance. Ma subito dopo troviamo Pesaro Urbino (9,1%), Treviso e Vicenza (entrambe 8,9%), Pordenone (8,6%) Pisa e Firenze (entrambe con 8,1%). E poi ancora Macerata (8%), Como (7,8%) e Milano (7,6%).

Quanto alle macroaree geografiche, è il Centro a fare la parte del leone: qui cultura e creatività producono un valore aggiunto di 18,7 miliardi di euro, equivalenti al 6,2% del totale della locale economia valore aggiunto.

Seguono da vicino il Nord-Ovest, che dall’industria culturale crea ricchezza per oltre 26 miliardi di euro, il 5,8% della propria economia, e il Nord-Est, che sempre dal settore delle produzioni culturali e creative vede arrivare 17,3 miliardi (5,4%).

Staccato il Mezzogiorno che dalle industrie culturali produce valore aggiunto per 12,5 miliardi di euro (4%).

La stessa dinamica che si riflette, con lievi variazioni, anche per l’incidenza dell’occupazione creata dalla cultura sul totale dell’economia.

Passando alla Regioni, in testa alla classifica per incidenza del valore aggiunto di cultura e creatività sul totale dell’economia, ci sono quattro realtà in cui il valore del comparto supera il 6%: Lazio (prima in classifica con il 6,8%), Marche (6,5%), Veneto (6,3%) e Lombardia (6,2%), quindi Piemonte e Friuli Venezia Giulia (entrambe a quota a quota 5,7%), quindi Toscana al 5,3%, il Trentino Alto Adige al 4,8%, l’Umbria al 4,7% e l’Emilia Romagna al 4,5%.

Considerando, invece, l’incidenza dell’occupazione delle industrie culturali sul totale dell’economia regionale la classifica subisce quale variazione: le Marche sono in vetta a quota 7,1%, segue il Veneto a quota 7%, quindi Lazio, Toscana e Friuli Venezia Giulia tutte e tre al 6,5%, Lombardia (6,4%) , Piemonte (6,1%), Valle d’Aosta (5,9%), Basilicata (5,5%), Trentino-Alto Adige (5,4%).


Mai più Mose

15 giugno 2014

L’associazione Libera e il gruppo Abele da tempo stanno portando avanti la campagna “Riparte il futuro”, per contrastare il diffondersi del fenomeno della corruzione in Italia. Alla luce di quanto avvenuto recentemente, riguardo agli appalti per la costruzione del Mose e per la realizzazione di Expo 2015, le due associazioni, presiedute da don Ciotti, hanno deciso di rilanciare questa campagna con la petizione denominata “Basta corruzione: vogliamo una legge subito”.

Perchè questa petizione?

Lo spiegano bene i promotori: “La cronaca di questi giorni, ancora una volta, sta affossando l’immagine del nostro Paese nel mondo e sfiancando la fiducia di noi cittadini. Prima lo scandalo Expo 2015, ora il Mose. Cos’altro deve succedere? Cosa aspetta l’Italia, attraverso i propri rappresentanti, a ripartire? La corruzione è l’incubatrice del potere della mafia e il suo avamposto”.

E cosa ci si propone con la petizione?

“Serve una terapia d’urto: chiediamo subito al Governo e al Parlamento una nuova legge anticorruzione che prevenga e contrasti il fenomeno.

Subito nuovi reati, come l’autoriciclaggio e la reintroduzione del falso in bilancio, con sanzioni adeguate. E subito più poteri, più risorse e personale all’Autorità anticorruzione. Ma soprattutto uno stop immediato alla ‘tagliola’ della prescrizione: che smetta di decorrere in caso di qualunque azione penale, come il rinvio a giudizio.

I passi successivi saranno un sistema di appalti finalmente efficace e trasparente, come chiesto dall’agenda di ‘Riparte il futuro’.

Non c’è più tempo: subito una nuova legge anticorruzione con il rafforzamento dell’Anac e contro i reati che favoriscono il malaffare”.

Io non aggiungo altro, se non il mio invito a firmare subito questa petizione.

Per firmarla è sufficiente visitare questo sito www.riparteilfuturo.it/maipiumose.


260.000 minori con meno di 16 anni coinvolti nel lavoro minorile

12 giugno 2014

In Italia sono circa 260.000 i minori con meno di 16 anni  che lavorano. Il 7% della popolazione in quella fascia di età, 1 minore su 20. Sono molti, troppi, anche perché una percentuale elevata di loro hanno lavorato addirittura 11-12 anni e in condizione di grande sfruttamento e pericolo.

Questi sono alcuni dei dati preliminari del rapporto “Lavori ingiusti: indagine sul lavoro minorile e il circuito della giustizia penale”, realizzato da Save the Children.

Nell’ambito di questo rapporto sono stati interpellati tutti i ragazzi e le ragazze che si trovano negli istituti penitenziari minorili, nelle comunità di accoglienza penale e nelle comunità ministeriali, oltre a un numero significativo di ragazzi in carico all’ufficio di servizio sociale minorile.

Il 66% di questi minori hanno svolto attività lavorative prima dei 16 anni.

Nel 73% dei casi sono giovani italiani mentre il restante 27% è costituito da stranieri, in genere proveniente dalla Romania, dall’Albani e dall’Africa del nord.

Nel 66% dei casi i minori hanno lavorato da giovanissimi per far fronte alle proprie spese personali, tuttavia più del 40% ha affermato di aver lavorato per aiutare la propria famiglia.

La ristorazione (21%), la vendita (17%), l’edilizia (11%), l’agricoltura (10%), sono i principali settori dove hanno lavorato i ragazzi intervistati.

Quindi si può sostenere che esista un circolo vizioso che parte dall’abbandono scolastico, passa per lo sfruttamento lavorativo fino ad arrivare al coinvolgimento nelle reti della criminalità.

Questi dati sono pertanto molto preoccupanti, ma sono poco conosciuti e comunque ampiamente sottovalutati.

Di conseguenza la situazione del lavoro minorile dovrebbe essere oggetto di una maggiore attenzione.

E soprattutto dovrebbero essere attuati interventi più efficaci e più estesi per contrastare il fenomeno, prevalentemente di natura preventiva.

Giustamente, secondo Save the Childrenm sarebbe necessario adottare un piano nazionale sul lavoro minorile che preveda da un lato la creazione di un sistema di monitoraggio regolare del fenomeno e dall’altro le azioni da svolgere per intervenire efficacemente sulla prevenzione e sul contrasto del lavoro illegale, e in particolare delle peggiori forme di lavoro minorile.

E, ovviamente, per l’attuazione di un piano di questa natura, devono essere destinate le risorse finanziarie pubbliche adeguate che, in questo caso, non rappresenterebbero affatto uno spreco, anche in presenza dei noti problemi del nostro bilancio pubblico, ma un vero e proprio investimento per il futuro dei giovani italiani.


Berlinguer ti voglio bene anche io

11 giugno 2014

Oggi sono 30 anni dalla morte di Enrico Berlinguer avvenuta il 14 giugno 1984 a Padova, dopo il malore che nei giorni precedenti Berlinguer ebbe nel corso di un comizio. E’ doveroso ricordarlo e intendo ricordarlo anche io.

Berlinguer può anche essere criticato, a mio avviso, per alcune politiche che portò avanti come segretario del Pci e leader indiscusso di questo partito, nel periodo nel quale fu segretario.

Può essere criticata la politica del compromesso storico.

Può essere criticata la sua azione insufficiente per rinnovare radicalmente il Pci, come era necessario fin dal termine degli anni ’70 e dagli inizi del decennio successivo.

Può essere criticata la sua decisione di non scendere ad alcun compromesso per favorire la liberazione di Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse.

Non può essere criticata però la politica dell’austerità, che fu da lui sostenuta con molto impegno anche se non fu seguito da molti, anche all’interno del suo partito. Con quella politica egli evidenziò l’esistenza in Italia di una questione morale di notevole importanza, anticipando poi le vicende giudiziarie che alcuni anni dopo emersero con “Mani pulite”.

Ma, soprattutto, non può essere criticata la sua concezione della politica.

Il suo essere contraddistinto da una passione politica molto intensa.

Il fatto di perseguire l’interesse generale del Paese e non certo i suoi interessi personali.

Il suo rigore morale così forte.

E la sua concezione della politica, rimane un modello da seguire, anche a 30 anni di distanza dalla sua morte, per tutti coloro che intendono fare politica non solo nel Pd, ma in tutti i partiti.

Purtroppo in pochi casi, oggi, Berlinguer è un modello che viene seguito, per quanto concerne appunto il suo modo di concepire la politica.

Quindi Berlinguer sembra essere, di fatto, dimenticato.

Il mio auspicio è che, invece, nel prossimo futuro, Berlinguer diventi di nuovo un modello seguito realmente da un numero crescente di persone che decidono di dedicarsi all’attività politica, anche per un periodo limitato della loro vita.

Se questo avvenisse la situazione politica, ma anche quella economica e sociale, dell’Italia migliorerebbe, decisamente.

Io sono scettico che quanto da me auspicato avvenga realmente, ma la speranza rimane, comunque.

Peraltro seguire il modo di concepire la politica adottato da Berlinguer sarebbe il modo migliore per ricordarlo, se non l’unico.


Necessario aumentare la spesa pubblica per i disabili

8 giugno 2014

Nel quarto capitolo del rapporto dell’Istat “Tendenze demografiche e trasformazioni sociali”, dedicato alle nuove sfide per il sistema di welfare, sono contenuti dati preoccupanti sulla spesa pubblica destinata alle persone con disabilità.

Infatti la spesa pubblica con quella finalità, nel 2011, è stata pari in Italia al 5,8% della spesa complessiva in protezione sociale, a fronte del 7,7% della media europea.

Si tratta di pensioni di invalidità, contributi per favorire l’inserimento lavorativo, servizi finalizzati all’assistenza e all’inclusione sociale e strutture residenziali.

Questo ci colloca tra i Paesi con le percentuali più basse di spesa destinata alla disabilità. A spendere percentualmente meno dell’Italia sono solo Grecia, Irlanda, Malta e Cipro.

Prestazioni che pesano solo per l’1,7% sul nostro Prodotto Interno Lordo.

Di questa percentuale l’1% è destinato alle provvidenze (pensioni e indennità) per l’invalidità civile e solamente lo 0,7% del Pil è destinato ai servizi per l’inclusione sociale o per strutture residenziali.

Questi dati dimostrano ancora una volta i tagli alla spesa pubblica sono stati, negli ultimi anni, tagli lineari, cioè indiscriminati, senza salvaguardare gli interessi dei soggetti più deboli, come appunto le persone con disabilità.

E’ del tutto evidente che, anche nel prossimo futuro, sarà necessario per risolvere i problemi del bilancio pubblico italiano ridurre la spesa pubblica.

Ma vanno ridotti gli sprechi, che sono molti, e non le spese essenziali come quelle destinate ai disabili. Certo occorrerà effettuare una verifica circa l’eventuale esistenza di sprechi anche per quanto riguarda questo tipo di spese.

Presumo però che gli sprechi in questo settore siano molto limitati.

Non solo, ma proprio considerando i dati prima esposti che dimostrano il divario eccessivo che separa il nostro Paese dagli altri dell’Unione europea per quanto concerne quelle spese, è necessario che le spese pubbliche a favore delle persone con disabilità aumentino con l’obiettivo di eliminare, nel corso di alcuni anni quel divario.

E ciò sarà possibile, nonostante la necessità di ridurre la spesa pubblica complessiva, se effettivamente verranno eliminati, seppur gradualmente, i notevoli sprechi che si annidano nell’ambito della spesa delle pubbliche amministrazioni.

In questo modo si potrà, oltre che ridurre la spesa pubblica totale, individuare le risorse finanziarie necessarie per aumentare la spesa per disabili, spesa che non può affatto essere considerata uno spreco, tutt’altro.

Questo sembrerebbe ovvio, ma non lo è, proprio tenendo in considerazione i dati forniti dall’Istat.