La scuola media allo sfascio?

30 settembre 2021

La scuola media inferiore è contraddistinta da una situazione di grave crisi. Lo sostiene il rapporto scuola media 21 redatto dalla fondazione Agnelli. E rispetto a dieci anni fa la situazione non è migliorata. Gli apprendimenti restano insoddisfacenti, i divari territoriali e le disuguaglianze sociali sono ancora più evidenti, i docenti non sono meglio formati né la didattica è stata rinnovata, rimanendo molto tradizionale.

Nel 2011 fu realizzato il primo rapporto della fondazione Agnelli sullo stato di salute della scuola media che già rilevava l’esistenza d diversi problemi.

Quali i principali risultati del rapporto del 2021?

La qualità degli apprendimenti degli allievi di secondaria di primo grado resta critica, inferiore non solo a gran parte degli altri Paesi avanzati, ma anche ai livelli che ci si poteva attendere sulla base dei risultati alla primaria.

Il rapporto segnala, ad esempio, come nelle ultime rilevazioni internazionali Timss (matematica e scienze) gli apprendimenti in matematica degli studenti italiani siano sempre ampiamente sopra la media internazionale in IV primaria, ma in III media scendano decisamente al di sotto.

“Le disuguaglianze dovute all’origine socio-culturale, misurate in base al titolo di studio dei genitori – ha spiegato Barbara Romano che ha curato il rapporto – sono ben visibili già alla scuola primaria, con una differenza in media di 26 punti tra uno studente figlio di laureati e uno studente i cui genitori hanno la licenza elementare.

Ma poi deflagrano alla scuola media, arrivando fino a 46 punti, che equivalgono, alla fine del ciclo, a una differenza di quasi tre anni di scuola”.

I divari territoriali, che la primaria riesce a contenere, nella scuola media esplodono più che in passato, prevalentemente nelle regioni meridionali

A differenza di 10 anni fa, si manifestano anche i divari di apprendimento che penalizzano gli studenti di origine straniera rispetto ai loro pari con genitori italiani.

Stabili rispetto alla primaria sono, invece, le differenze di genere, con le ragazze indietro rispetto ai ragazzi in matematica e scienza: nel corso del tempo le distanze si sono ridotte, ma soltanto per via di un più consistente peggioramento dei maschi.

Il rapporto dà, inoltre, evidenza di quanto conti un orientamento ben fatto e ben recepito da ragazzi e famiglie per scelte più consapevoli: i dati di ricerca mostrano che quando gli studenti scelgono gli indirizzi formativi che più rispondono alle proprie competenze e interessi, seguendo i consigli orientativi che derivano anche da prove psicoattitudinali, la probabilità di essere bocciati al primo anno delle superiori si riduce considerevolmente, mentre è quasi doppia per chi non segue il consiglio orientativo.

Le difficoltà degli studenti in larga misura si spiegano con quelle dei loro docenti: molti problemi che già 10 anni fa ostacolavano i docenti di scuola media risultano, infatti, confermate o aggravate.

Nell’a.s. 2020-21 erano 202.000 i docenti della secondaria di I grado (a tempo indeterminato e determinato), circa il 13% in più del 2011 (nello stesso periodo la popolazione studentesca alle medie è scesa del 3%).

Poiché il numero di docenti di ruolo è rimasto quasi invariato (144.000 nel 2011, l’anno scorso poco più di 142.000), l’incremento si deve interamente alla crescita dei docenti precari: gli incarichi annuali o “fine al termine delle attività didattiche” erano circa 35.000 (19%), l’anno scorso quasi 60.000 (30%).

In particolare, nell’a.s. 2020-21 era drammatica la percentuale di precari nel sostegno (60% del totale del sostegno).

A dispetto delle attese, nonostante le numerose assunzioni in ruolo della legge della Buona Scuola del 2015 e il recente aumento dei pensionamenti, non si è verificato in questi anni il ringiovanimento dei docenti di ruolo della secondaria di I grado che auspicavamo nello scorso rapporto: l’età media era poco più di 52 anni nel 2011, ora è poco meno. Mentre 1 docente su 6 ha 60 anni e oltre, coloro che vanno in cattedra prima di 30 anni sono invece un minuscolo drappello: 1 su 100.

La scuola media, inoltre, è anche il grado più soggetto alla “giostra degli insegnanti”: da un anno all’altro soltanto il 67% dei docenti rimane nella stessa scuola (83% nella primaria, 75% nelle superiori, dati dell’a.s. 2017-18), con le prevedibili conseguenze negative per la qualità didattica.

I limiti della formazione ricevuta dagli insegnanti della scuola media per quanto riguarda la didattica e la pratica d’aula sono rivelati anche da alcuni dati di ricerca, che mostrano come – sebbene non sistematicamente – spesso essi siano meno efficaci dei colleghi della primaria nelle strategie didattiche, come pure nella creazione di un clima in classe favorevole agli apprendimenti e alla crescita personale.

Le proposte della fondazione Agnelli quali sono?

In primo luogo, occorre lavorare sugli insegnanti, valorizzandoli, e sulla qualità dell’insegnamento.

Servono percorsi di formazione iniziale per la secondaria con un forte orientamento alla didattica, a partire da una laurea magistrale per l’insegnamento; qualsiasi direzione prenda la riforma del reclutamento, criteri di abilitazione molto selettivi con prove pratiche per valutare le competenze didattiche; formazione in servizio obbligatoria, che comprenda un costante aggiornamento dei metodi di insegnamento e una periodica valutazione; miglioramento dello status professionale e delle motivazioni dei docenti (incentivi di carriera e retribuzioni), anche per attirare verso l’insegnamento i migliori laureati.

In secondo luogo, la didattica va modellata sulle esigenze specifiche della scuola media.

Intanto, con metodologie più coerenti all’evoluzione cognitiva ed emotiva degli adolescenti (gruppi di apprendimento fra pari, strategie metacognitive); inoltre, pensando la scuola media come percorso di orientamento al futuro, con strumenti e metodologie didattiche che favoriscano la scoperta e la valorizzazione delle inclinazioni personali, dando indicazioni per le scelte successive (apprendimento per mezzo di progetti individuali, didattica per compiti di realtà, apprendimento socioemotivo).

Infine, si ritiene necessaria un’estensione del tempo scuola alla secondaria di I grado, con la scuola del pomeriggio come scelta ordinamentale.

Tempi più lunghi e distesi favoriscono le pratiche didattiche orientate a percorsi di apprendimento individualizzati e quelle attività (sportive, artistiche ed espressive, musicali, applicative, laboratoriali) fondamentali anche per lo sviluppo di competenze non cognitive.

Ripensare la secondaria di I grado è dunque un’altra delle priorità che il nostro sistema d’istruzione dovrà affrontare con le risorse del Pnrr dopo che la pandemia ne ha messo in luce criticità antiche e gravi?

“Pensiamo che oggi per la scuola ci sia una sola priorità, che riassume tutte le altre: fare crescere gli apprendimenti dei ragazzi – ha spiegato Andrea Gavosto, il direttore della fondazione Agnelli – .

Il riscatto degli apprendimenti è allora ovviamente fondamentale nella scuola media, dove esplodono divari e disuguaglianze.

Le politiche di cui si parla nel Pnrr vanno per forza declinate nel grado scolastico più in difficoltà: in particolare, l’orientamento, la formazione e il reclutamento dei docenti, la didattica, proprio le aree di intervento che abbiamo indicato”.

 “Oggi apprendimenti inadeguati nella secondaria di I grado possono condizionare in modo decisivo il futuro di un ragazzo – ha concluso Gavosto – forse ancora di più che negli altri gradi scolastici, tenendo conto del momento focale di sviluppo cognitivo ed emotivo dei ragazzi a quell’età. Non si può lasciare la scuola media ancora indietro”.

Non posso che condividere le proposte avanzate dalla fondazione Agnelli.

Sono però molto scettico sulla possibilità che esse siano accolte. Lo stesso “Recovery Plan” solo in minima parte sarà in grado di affrontare i problemi che contraddistinguono la scuola media.

E, come ho già rilevato in un precedente post, la situazione critica in cui si trova la scuola media dipende principalmente dal fatto che la scuola, il sistema formativo più in generale, non rappresenta, da tempo, una priorità per le istituzioni, sia amministrative che politiche.


Ci sarà la riforma del catasto? Difficile.

27 settembre 2021

Nell’ambito delle proposte relative alla riforma fiscale che il Governo dovrebbe varare nei prossimi mesi si è, di nuovo, discusso della possibilità di attuare una riforma del catasto, in primo luogo di modificare cioè le rendite catastali degli immobili per renderle maggiormente in sintonia con i valori di mercato.

Come altre volte in passato, diversi esponenti politici hanno manifestato la loro contrarietà ad attuare una riforma del catasto nel timore che essa possa determinare, di fatto, un aumento delle imposte sullecase ed anche causare dei cambiamenti nelle agevolazioni connesse al valore del cosiddetto Isee, influenzato anche dal valore delle rendite catastali degli immobili di proprietà di coloro che richiedono quelle agevolazioni.

In un articolo pubblicato su www.lavoce.info, scritto da Massimo Baldini, Silvia Giannini e Simone Pellegrino, sono contenute alcune considerazioni senza dubbio molto interessanti relative appunto alla riforma del catasto.

“Riformare il catasto non necessariamente implica un aggravio di imposta in questo comparto di imposizione.

Questo è però il timore più diffuso e, in Italia, da decenni, chi tocca la casa è politicamente sconfitto.

La giustificazione va ricercata nell’elevata quota (circa tre quarti) di famiglie proprietarie dell’immobile di residenza, nel non esiguo numero di famiglie proprietarie di altri immobili (circa un terzo)…

E’ anche poco il valore del gettito se guardiamo all’Imu derivante dagli immobili diversi dalla prima casa, 20 miliardi di euro in totale.

L’insieme delle imposte che gravano sugli immobili valgono in totale circa 40 miliardi, perché vanno considerate anche le altre imposte collegate agli immobili, come l’Iva, la cedolare secca, l’imposta di registro e di bollo, etc…

Il numero complessivo di immobili nel nostro Paese è di circa 64,4 milioni di unità, di cui 57,1 milioni di proprietà di persone fisiche.

Gli immobili del gruppo catastale A (le abitazioni comunemente intese), esclusi gli uffici, sono 34,9 milioni, di cui 32,2 milioni di proprietà di persone fisiche. Le cosiddette prime case sono 19,5 milioni, con 13,3 milioni di pertinenze.

Focalizzando l’attenzione sugli immobili non accatastati nel gruppo A, le pertinenze sono 11 milioni, 2 milioni i negozi, 0,7 milioni gli uffici, 1,6 milioni gli immobili ad uso produttivo, 1 milione quelli utilizzati per altri usi.

L’attuale sistema è caratterizzato anche da vistose inefficienze.

Ad esempio, sono circa 2,1 milioni gli immobili presenti in catasto ma non riscontrati nelle dichiarazioni dei contribuenti…

Un sistema tributario moderno non può permettersi di non saper accertare bene queste basi imponibili, incrociando le informazioni delle numerose banche dati oggi disponibili.

Inoltre, come osservato, le abitazioni di residenza secondo le dichiarazioni dei redditi sono 19,5 milioni.

Il numero di prime case stimate utilizzando le principali indagini campionarie sono inferiori, circa 1,5-2 milioni in meno.

Una quota non irrilevante di questa discrepanza deriva dal fatto che molti coniugi risiedono, dal punto di vista sostanziale, nella stessa abitazione, ma formalmente sono residenti in abitazioni differenti al fine di usufruire di benefici fiscali…

Vediamo ora qualche numero sulle rendite catastali.

Considerando l’intero gruppo A, esclusi gli uffici, la somma delle rendite catastali è pari ad appena 16,9 miliardi di euro, di cui 15,6 quelle di proprietà di persone fisiche.

Questo implica che la rendita catastale media è pari a meno di 500 euro annui.

Preme ricordare che la rendita catastale dovrebbe rispecchiare il canone di locazione che un proprietario potrebbe ricevere qualora decidesse di cedere in locazione la sua abitazione, il cosiddetto ‘affitto’ imputato, peraltro considerato nella definizione di prodotto interno lordo in quanto autoconsumo.

Ebbene, la rendita catastale è, oggi, pari a circa il 10-15% dell’‘affitto’ imputato. Questa profonda diversità dipende dall’arretratezza, in media, del nostro catasto.

Un discorso analogo vale per le altre tipologie di immobili. Ne emerge un quadro quanto meno desolante.

La sottovalutazione media delle rendite catastali si rispecchia anche nei valori considerati per la base imponibile ai fini Imu o, precedentemente, Ici…

Oggi, pertanto, il rapporto tra le rendite catastali e i valori patrimoniali non risponde più a un criterio teorico di determinazione del rendimento medio dei fabbricati.

Emerge l’incoerenza di fondo tra un sistema catastale nato per determinare e tassare le rendite e un sistema tributario che oggi è ispirato prevalentemente (più sulla carta che effettivamente) a tassare i valori patrimoniali o i trasferimenti di patrimoni…

Quello che oggi preoccupa prioritariamente non è soltanto la sottovalutazione di questi valori, ma i disallineamenti relativi dei valori reddituali e patrimoniali avvenuti nel tempo.

L’attuale sistema catastale, in assenza di revisioni e di una modalità di classamento coerente con le effettive caratteristiche dell’immobile, è dunque fonte di forti disparità sia ‘verticali’ (considerando cioè immobili di diverso pregio) sia ‘orizzontali’ (considerando cioè immobili simili).

Non è detto che l’esito della revisione dei valori catastali sia un aumento del gettito derivante dagli immobili: questa è una scelta politica.

A parità di gettito, è praticamente certo che si verificherà sia una redistribuzione tra comuni, da valutare attentamente in una logica di federalismo fiscale, sia una redistribuzione tra contribuenti.

Quest’ultimo aspetto non deve essere un freno per ogni riforma, per due motivi: non si possono pensare solo riforme che sempre e comunque riducono le imposte per tutti; se la revisione dei valori catastali dovesse comportare aggravi per qualcuno, evidentemente è perché egli è stato avvantaggiato in passato rispetto ad altri, da un catasto non aggiornato.

E per la stessa ragione, è del tutto possibile che qualcuno pagherà meno di prima.

In particolare, è noto che l’attuale catasto tende ad avvantaggiare soprattutto le abitazioni nelle zone centrali delle grandi città (perché accatastate prima) rispetto a quelle in periferia (accatastate più di recente), inducendo dunque una sorta di redistribuzione alla rovescia, da chi ha meno disponibilità di reddito (che vive prevalentemente in periferia) a chi ne ha di più e vive in centro.

Al massimo la riforma cambierà la distribuzione temporale dell’onere dell’imposta per i singoli contribuenti. Non uno scandalo.

Per concludere, si osserva che neanche i Paesi più efficienti rivedono il catasto ogni anno, non sarebbe neanche necessario. Detto ciò, tra non così tanti anni il nostro catasto compirà un secolo. Di tempo per pensare alla sua revisione ne abbiamo avuto fin troppo”.

Tali considerazioni  dovrebbero indurre a concludere che, in tempi brevi, risulterà necessario riformare il catasto.

Ho molti dubbi, però, che ciò avvenga, quanto meno nel breve periodo, proprio per i motivi rilevati all’inizio della parte dell’articolo in questione che ho qui riportato.


Nei veleni in Vaticano contro Bergoglio coinvolto anche Parolin

24 settembre 2021

Nella recente visita del Papa in Slovacchia si è svolto un incontro tra Bergoglio e un gruppo di gesuiti (si ricorda che Bergoglio è gesuita) nel corso del quale il Papa ha sostenuto che durante il periodo del suo ricovero al Gemelli si siano tenute diverse riunioni in Vaticano di cardinali e alti prelati non certo a lui favorevoli.

In queste riunioni i partecipanti, ritenendo che la malattia di Bergoglio fosse più grave di quanto si è poi rivelata, hanno iniziato a discutere di chi potesse essere il cardinale in grado di succedere a Bergoglio dopo la sua eventuale morte.

La notizia in questione, la cui fonte è appunto il Papa, ha giustamente e ovviamente fatto scalpore.

In realtà non dovrebbe stupire più di tanto, però.

Infatti è noto che fra le alte sfere del Vaticano, soprattutto tra i cardinali più conservatori e tradizionalisti, ci siano alcuni, non molti, che osteggiano più o meno apertamente Bergoglio, le sue posizioni e i suoi comportamenti.

Ma non finisce qui però.

Il segretario di Stato, cardinale Parolin, ha esplicitamente negato che ci siano stati quelle riunioni, ponendosi, oggettivamente, in contrasto con il Papa.

E questo è senza dubbio una novità. Non è certo normale che un segretario di Stato contraddica apertamente quanto sostenuto dal Papa.

Pertanto tale comportamento di Parolin è stato interpretato come la dimostrazione che anche il segretario di Stato non apprezzi, almeno per certi aspetti, l’operato di Bergoglio.

Bergoglio, indubbiamente, non si fa e non si farà influenzare dalle critiche che hanno manifestato o che manifesteranno cardinali che ricoprono anche incarichi molto importanti, come lo stesso Parolin.

Ma tutto ciò dimostra che fra gli alti “papaveri” del Vaticano la “fronda” nei confronti di Bergoglio è più ampia di quanto si pensasse fino ad ora.

E tale “fronda” potrebbe esercitare un’influenza, non di secondaria importanza, al momento del Concistoro che dovrà effettivamente scegliere il successore di Bergoglio, non essendo costui immortale e avendo egli un’età abbastanza avanzata.

Ed è, inoltre, probabile, che questa “fronda” operi per promuovere un chiaro processo di restaurazione rispetto alle innovazioni che, oggettivamente, ha introdotto Bergoglio.


Draghi deve continuare ad essere presidente del Consiglio

20 settembre 2021

Agli inizi del 2022 dovrà essere eletto il nuovo presidente della Repubblica, terminando allora il settennato di Sergio Mattarella. Una delle ipotesi relativa al nuovo presidente riguarda l’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi. In questo caso, ovviamente, Draghi non potrebbe essere più presidente del Consiglio. Io credo che, invece, Draghi deve continuare ad essere presidente del Consiglio, almeno fino alla scadenza naturale del Parlamento, nel 2023.

Infatti, a mio avviso, l’autorevolezza e la capacità di governo, ampiamente dimostrate da Draghi da quando è diventato presidente del Consiglio, sono ancora necessarie, considerando anche che il processo di attuazione del cosiddetto Recovery Plan è estremamente complesso.

Altri non sarebbero in grado, come Draghi, di attuare almeno gran parte degli interventi previsti nel Recovery Plan.

Ma, a parte questo, Draghi si è dimostrato in grado di affrontare con successo i problemi connessi all’eterogeneità della maggioranza che sostiene il suo governo.

In particolare, è stato in grado di superare, senza grandi difficoltà, le perplessità evidenziate da Matteo Salvini nei confronti di alcuni importanti interventi decisi dal governo.

Inoltre, Draghi ha una credibilità a livello internazionale che, di conseguenza, rende credibile anche il suo governo e l’intero Paese.

Poi, non si vede all’orizzonte, al momento, un personaggio che potrebbe degnamente sostituire Draghi.

Aggiungo che se Draghi fosse chiamato al Quirinale, sarebbe possibile, e forse probabile, un’interruzione anticipata della legislatura, con il conseguente ricorso alle elezioni politiche prima della scadenza naturale, il che porterebbe il nostro Paese, quasi certamente, in una situazione di ingovernabilità che potrebbe durare diversi mesi.

Pertanto, mi sembra del tutto evidente che sarebbe necessario che Draghi rimanesse presidente del Consiglio e, perché no, anche dopo le elezioni politiche del 2023.

E chi potrebbe diventare il nuovo presidente della Repubblica?

Potrebbe ancora essere Sergio Mattarella, quanto meno per alcuni anni, non per l’intero settennato, anche perché non mi sembra che attualmente ci sia un esponente politico in grado di raccogliere, come necessario, i consensi della grande maggioranza dei parlamentari per essere eletto alla presidenza della Repubblica.

Del resto c’è il precedente di Giorgio Napolitano, il cui secondo mandato durò solo alcuni anni.

Nel frattempo, sarebbe utile che si discutesse sull’opportunità che il nostro sistema politico si trasformi in un semipresidenzialismo, nel quale il presidente della Repubblica diventerebbe, direttamente o indirettamente, anche la guida del Consiglio dei Ministri, con un mutamento conseguente della legge elettorale.

Vasto programma, direbbe qualcuno, soprattutto in considerazione del livello qualitativo, certamente non molto elevato, della classe dirigente dei partiti rappresentati in Parlamento.

Un libro dei sogni, quindi. Potrebbe esserlo. Ma sarebbe necessario che divenisse realtà.

Ma la speranza è l’ultima a morire…


Landini come Salvini, purtroppo

17 settembre 2021

Appare strano, ma è proprio così. Per quanto riguarda il green pass le posizioni assunte da Maurizio Landini, segretario della Cgil, sono risultate essere simili a quelle espresse da Matteo Salvini, segretario della Lega. Un bel risultato per Landini e la Cgil…

Landini come Salvini non era favorevole all’introduzione dell’obbligo del green pass per i lavoratori delle aziende private.

Landini come Salvini, nel caso dell’ introduzione dell’obbligo del green pass per i lavoratori delle aziende private, ha chiesto che fossero gratuiti i tamponi per coloro che non intendevano vaccinarsi.

Per la verità, Draghi, per entrambe le questioni, ha “sconfitto” sia Landini che Salvini.

A me non interessano le posizioni di Salvini, o meglio non mi stupiscono.

Mi interessano, e mi stupiscono, le posizioni di Landini ed anche quelle della Cgil e degli altri sindacati.

Perché tali posizioni sono completamente sbagliate.

Infatti l’introduzione dell’obbligo del green pass anche per i lavoratori privati, impedendo che i tamponi per i non vaccinati fossero gratuiti, è senza ombra di dubbio uno strumento importante per incrementare ulteriormente il numero dei vaccinati, condizione questa indispensabile per ridurre il rischio, sempre presente, di una notevole diffusione del Covid-19.

Ma perché Landini e i rappresentanti degli altri sindacati hanno assunto quelle posizioni così sbagliate?

Perché ormai i sindacati sono sempre più spesso privi di una visione generale, sempre meno intendono tutelare l’interesse generale, ma solo l’interesse, talvolta presunto, dei propri tesserati o anche di alcune componenti dei loro tesserati.

Un grave errore.

E, io credo, se i sindacati continueranno a comportarsi in quel modo, il loro peso nella società italiana tenderà a diminuire sempre di più.

E questo non sarà per nulla positivo.

Infatti la società italiana avrebbe bisogno di sindacati forti ma autorevoli, però rappresentativi non solo dei loro tesserati, peraltro sempre di meno, e tendenti a tutelare anche gli interessi generali del nostro Paese.


Quando la scuola diventerà una priorità?

13 settembre 2021

Oggi, in quasi tutte le regioni, riaprono gli istituti scolastici. Ci si preoccupa soprattutto della necessità del green pass per il personale, dei livelli di sicurezza presenti negli istituti, in seguito alla permanenza della diffusione del Covid-19, e si auspica che il ricorso alla didattica a distanza sia decisamente inferiore rispetto a quanto avvenuto nei due anni passati. Tutti problemi importanti, ma…

Certamente, i problemi prima esposti sono importanti e devono essere oggetto della massima attenzione.

Ma, non è sufficiente.

I problemi del sistema scolastico italiano sono anche altri. Soprattutto altri?

Non vengono, ancora, affrontati adeguatamente i problemi strutturali che lo caratterizzano da anni.

Il notevole abbandono scolastico, in primo luogo nelle regioni meridionali, la qualità dell’insegnamento, anche in presenza, nel complesso insufficiente, la ridotta quota di laureati sul totale della popolazione, inferiore a quella che contraddistingue molti altri Paesi europei, la scarsa sintonia tra l’offerta scolastica e le esigenze del mondo del lavoro.

E la lista non finisce qui, vi sono anche altri problemi strutturali, che andrebbero risolti, una volta per tutte.

Il Recovery Plan contribuirà quanto meno a ridurli?

Forse. Ma non li eliminerà di certo, neppure nel medio periodo.

E questo perché, nonostante i frequenti proclami di chi ha la responsabilità del governo nazionale, nonostante i propositi dei sindacati del personale scolastico, in realtà il sistema scolastico, o meglio ancora, il sistema formativo, non è ancora considerato una vera priorità, in Italia.

Invece dovrebbe esserlo non solo per migliorare la qualità della vita sociale ma anche per favorire lo sviluppo economico.

Non mi soffermo ad esaminare le cause alla base del fatto che il sistema formativo non è una vera priorità.

Per ora, ritengo sufficiente rilevare che esso non è per nulla una vera priorità, mentre dovrebbe assolutamente esserlo.


Perchè aumenterà ancora il prezzo dell’elettricità

9 settembre 2021

I prezzi delle bollette per l’elettricità sono già aumentati e molto probabilmente aumenteranno, in misura ancora più considerevole, nel periodo invernale, soprattutto in Italia ma anche nel resto dell’Europa. Infatti la situazione del nostro Paese è più preoccupante di quella che contraddistingue altri Paesi.

I motivi alla base di questi aumenti dei prezzi energetici li spiega molto bene Davide Tabarelli, in un articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore”, presidente e fondatore, dal 2006, di Ne-Nomisma Energia, società di ricerca sull’energia e l’ambiente

Infatti secondo Tabarelli da settimane è in corso in Europa una vera e propria crisi energetica, quella del gas e a seguire dell’elettricità.

Gli aumenti dei prezzi inducono a ritenere che durante il prossimo inverno si rischia che non ci sia gas a sufficienza.

Infatti il prezzo del gas ha toccato 55 euro per megawattora, oltre 5 volte la media del 2020.  Questo perché il le quantità disponibili di gas, in Europa, sono insufficienti rispetto alla domanda.

Il prezzo dell’elettricità è al massimo storico di 145 euro per megawattora, contro una media di 42 euro del 2020.

E il gas serve a fare l’elettricità soprattutto in Italia.

Peraltro, la produzione interna europea sarebbe ancora potenzialmente abbondante.

La situazione più eclatante è quella che contraddistingue l’Italia.

Il nostro Paese infatti ha enormi riserve di gas scoperte e pronte ad essere prodotte e che invece rimangono sottoterra.

La nostra produzione sta scendendo a 4 miliardi metri cubi all’anno, quando si potrebbero produrre 20, come avvenne negli anni ’90.

E in Italia, unico caso al mondo, c’è un sistema elettrico dipendente per il 45% dal gas e quest’ultimo viene importato per il 90%.

Non si ha flessibilità nel parco elettrico, non si può, ad esempio, ridurre, per grandi volumi, il gas alle centrali elettriche, perché quasi tutte sono obbligate all’uso del gas e da anni si sono chiuse quelle che potevano usare prodotti petroliferi, mentre quelle a carbone, le poche che avevamo, sono al minimo.

Ma le rinnovabili, il solare e il vento? Quelle che dovrebbero costare meno di 70 euro per megawattora?

Contano ancora troppo poco, il 16% della nostra produzione elettrica, non si riescono a realizzare e causano problemi alle reti.

Quello che, quindi, sta avvenendo in Italia è un forte incremento delle importazioni di elettricità dall’estero: nei primi 7 mesi del 2021 sono aumentate del 55% e hanno soddisfatto il 14% dei nostri consumi, tutte quantità che provengono dalla vicina Francia che, negli ultimi mesi, ha ripreso a far marciare a pieno ritmo le sue 56 centrali nucleari.

E, per il prossimo inverno, possiamo solo tenere le dita incrociate, conclude Davide Tabarelli.


Afghanistan, oltre 30.000 bambini mutilati o uccisi negli ultimi 20 anni

6 settembre 2021

Negli ultimi 20 anni quasi 33.000 bambini, in Afghanistan, sono stati uccisi e mutilati con una media di un bambino ogni cinque ore. Questo è quanto rileva Save the Children, sottolineando come questi numeri siano una dimostrazione devastante delle conseguenze letali della guerra sulla vita dei bambini, mentre le ultime forze militari internazionali si sono ritirate da Kabul.

Anche prima della recente escalation di violenze, quasi la metà della popolazione in Afghanistan, tra cui quasi 10 milioni di bambini, dipendeva dagli aiuti umanitari per far fronte alla crisi esacerbata da siccità, dalla terza ondata di Covid-19 e dal conflitto e già si prevedeva che quest’anno la metà dei bambini di età inferiore ai cinque anni avrebbe sofferto di malnutrizione acuta.

“La cruda verità è che insieme agli ultimi aerei militari lasceranno il Paese anche l’attenzione, la copertura mediatica e il supporto che l’Afghanistan ha ricevuto nelle ultime settimane.

Ma mentre il resto del mondo va avanti, milioni di bambini afgani andranno a dormire affamati, soffrendo e senza sapere cosa riserva loro il futuro.

Ciò che rimane dopo 20 anni è una generazione di bambini le cui intere vite sono state distrutte dalla miseria e dalla guerra e la sofferenza della popolazione negli ultimi due decenni è inimmaginabile.

Ogni bambino nato e cresciuto in Afghanistan non ha conosciuto altro che il conflitto e ha vissuto con la certezza che gli esplosivi potessero esplodere in qualsiasi momento o che le bombe potessero cadere dal cielo.

Hanno visto i loro fratelli morire di fame, di povertà o per malattie.

In questo momento migliaia di famiglie che sono state costrette a fuggire dalle loro case vivono all’aperto senza nemmeno una coperta per proteggersi dal rigido inverno che li attende. Uno scenario infernale che sta avendo luogo davanti ai nostri occhi” ha dichiarato Hassan Noor,direttore regionale di Save the Children per l’Asia. 

 “L’esercito ha lasciato il Paese ma chiediamo urgentemente alla comunità internazionale di rimanere e sostenere i bambini in Afghanistan con cibo, acqua pulita, riparo e istruzione perché se questo non accadrà gli sforzi degli ultimi 20 anni saranno davvero stati vani.

Esortiamo la comunità internazionale a continuare a sostenere il lavoro delle Ong nazionali e internazionali nel loro lavoro vitale per raggiungere i più vulnerabili, comprese le decine di migliaia di famiglie che hanno lasciato l’Afghanistan.

Chiediamo, inoltre, alle nuove autorità di garantire alle organizzazioni umanitarie un accesso sicuro, senza restrizioni e incondizionato per supportare chi ha più bisogno il prima possibile. I bambini e le loro famiglie in Afghanistan devono affrontare la siccità, il Covid-19 e un rigido inverno: non c’è tempo da perdere”.

Non posso che concordare con quanto auspicato da Save the Children relativamente alla situazione dei bambini in Afghanistan.

Ma sono anche d’accordo sulla loro previsione riguarda a una forte diminuzione dell’attenzione, a livello mondiale, su quanto accade e accadrà in Afghanistan.

E proprio per garantire che quanto richiesto da Save the Children venga attuato è necessario che quell’attenzione non si riduca, quanto meno in misura notevole.


Aumenta la cementificazione, purtroppo

2 settembre 2021

Secondo il rapporto 2021 dell’Ispra (istituto per la protezione e la ricerca ambientale) nel 2020 si è registrato un ulteriore aumento del consumo del suolo, in Italia. Quindi, nonostante la pandemia, nel 2020, nel nostro Paese si è continuato a costruire in misura notevole, tale da ridurre l’estensione delle aree naturali ed agricole.

Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 km2, ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno.

Un incremento che rimane in linea con quelli rilevati nel recente passato e che ha fatto  perdere al nostro Paese quasi 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, causando la perdita di aree naturali e agricole.

Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti.

Una crescita delle superfici artificiali solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali, pari quest’anno a 5 km2, dovuti al passaggio da suolo consumato a suolo non consumato (in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici che erano state già classificate come consumo di suolo reversibile).

La relazione tra il consumo di suolo e le dinamiche della popolazione conferma che il legame tra la demografia e i processi di urbanizzazione e di infrastrutturazione non è diretto e si è assistito a una crescita delle superfici artificiali anche in presenza di stabilizzazione, in molti casi di riduzione, dei residenti.

Anche a causa della flessione demografica, il suolo consumato pro capite è aumentato in un anno di 1,92 m2, passando da 357 a 379 m2 per abitante. Erano 349 nel 2015.

La copertura artificiale del suolo è ormai arrivata al 7,11% (7,02% nel 2015, 6,76% nel 2006) rispetto alla media dell’Unione europea del 4,2%.

Questi dati dimostrano che sarebbe necessario, tramite specifici interventi, quanto meno non aumentare il consumo del suolo se non, addirittura, ridurlo.

E’ chiedere troppo?

Non credo.

Sarebbe opportuno, a tale proposito, approvare una legge urbanistica nazionale, per imporre regole chiare in tutta Italia, con limiti inderogabili, prevedendo, tra l’altro, che nelle aree a rischio di frane o alluvioni, nelle oasi ecologiche o sulle coste dei mari, laghi e fiumi, i privati non possano costruire più niente e sia consentito solamente di realizzare opere di difesa idrogeologica, depuratori, acquedotti e lavori pubblici essenziali.