La marcia su Roma spiegata ai ragazzi

28 ottobre 2022

Oggi ricorrono i 100 anni dalla marcia su Roma, la manifestazione armata dell’ottobre 1922 con la quale Benito Mussolini e le sue camicie nere presero il potere instaurando il ventennio fascista. Non si deve dimenticarla né si devono dimenticare le nefandezze di cui Mussolini e i fascisti si resero responsabili. Né si deve dimenticare che un elemento costitutivo della repubblica italiana è stato l’antifascismo.

E la marcia su Roma va spiegata a chi non lo conosce, ad esempio ai ragazzi.

Pertanto ho deciso di riportare integralmente uno scritto, pubblicato su www.focusjunior.it, denominato appunto “La marcia su Roma spiegata ai ragazzi”.

Che cosa è stata la marcia su Roma?

Prima di tutto inquadriamo con precisione in fatti. La marcia su Roma, realizzatasi il 28 ottobre 1922, fu quell’evento storico in cui circa 20.000 uomini, armati e appartenenti al neonato Partito Nazionale Fascista (PNF), entrarono nella capitale del Regno d’Italia con l’intento di occuparla e costringere il re Vittorio Emanuele III ad affidare il governo a Mussolini.

Lo scopo della marcia fu effettivamente raggiunto, tanto che due giorni dopo il re incaricò ufficialmente il futuro Duce di formare un nuovo governo per garantire stabilità a un Paese in tumulto. Da quel momento, Mussolini e i suoi non abbandonarono il potere per i successivi 20 anni e la Marcia su Roma venne celebrata dal nuovo regime come una rivoluzione che aveva consegnato l’Italia a un futuro libero e glorioso.

Tuttavia per comprendere appieno che cosa accadde davvero in quei giorni, occorre andare un po’ più a fondo.

Qual’era la situazione politica nel 1922?

Dopo la fine della prima guerra mondiale, l’Italia era una nazione in forte crisi. Nonostante la vittoria al fianco delle forze dell’Intesa (Regno Unito e Francia in testa) infatti, il Paese non solo non aveva ottenuto tutti i territori a cui mirava al momento dell’ingresso nel conflitto (Trieste, Fiume, tutta la Dalmazia), ma era anche uscita molto impoverita dallo sforzo bellico.

Tale precarietà, combinata con l’avvento delle ideologie che predicavano la fine delle disuguaglianze e la riscossa della classe operaia (socialismo e poi comunismo), diede vita a un periodo di grande instabilità – il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920) – durante il quale si accese una violenta lotta tra le masse proletarie, operai e contadini che chiedevano aumenti di salari e abbassamenti dei prezzi e la classe borghese (industriali, proprietari terrieri, ecc…).

Scioperi, scontri e violenze erano all’ordine del giorno e in tale clima d’incertezza fecero la loro comparsa i fasci di combattimento guidati da Benito Mussolini: un’organizzazione para-militare (gente armata ma non inquadrata nell’esercito militare) che con manganelli e camicie nere attaccava i manifestanti e gli oppositori socialisti per riportare l’ordine nelle piazze.

L’avvento del fascismo

Benito Mussolini era un maestro di scuola, giornalista ed ex-socialista che all’indomani dello scoppio della Grande Guerra era stato espulso dal partito per le sue idee interventiste (cioè a favore dell’ingresso in guerra dell’Italia) e nazionaliste. Dopo il 1915, Mussolini si arruolò volontario nell’esercito e una volta terminata la guerra divenne il punto di riferimento per tanti ex-combattenti e nazionalisti scontenti dalla cosiddetta “vittoria mutilata” (così venivano chiamate le condizioni di pace che non riconoscevano all’Italia tutti i territori che le erano stati promessi).

Forte del suo seguito di patrioti e giovani agguerriti, nel 1919 Mussolini fondò i Fasci Italiani di Combattimento. Ben presto tali picchiatori divennero il braccio armato della borghesia, la quale usava i Fasci per stroncare gli scioperi e sedare qualsiasi forma di protesta nelle fabbriche.

Nel 1920 poi, Mussolini trasformò questo movimento in un vero partito politico, fondando, in Piazza San Sepolcro a Milano, il Partito Nazionale Fascista. Tale partito, benché privo di una vera e propria ideologia e guardato con sospetto per l’indole violenta dei suoi membri,  godeva dell’appoggio sia di una parte della classe dirigente (che come detto usava i fascisti per soffocare il malcontento), sia di una fetta della popolazione, la quale temeva che una vittoria dei socialisti avrebbe provocato una sanguinosa rivoluzione, come era accaduto in Russa nel 1917. 

Come si arrivo alla marcia su Roma?

Dopo un’apertura ai socialisti del vecchio Giovanni Giolitti, probabilmente il politico più importante e influente dei primi 20 anni del Novecento italiano, nel 1921 si tennero nuove elezioni e alcuni fascisti, tra cui Mussolini, vennero eletti come deputati. Tuttavia il governo rimase debole e fragile, tanto che Mussolini e suoi iniziarono a pensare di poter prendere il potere con la forza.

Da mesi infatti, benché le “squadracce” di picchiatori fascisti terrorizzavano con la violenza gli oppositori politici, scioperi e proteste stavano incendiando il Paese e Mussolini si era convinto di essere l’unico in grado d’impedire che l’Italia cadesse nelle mani dei “rossi” (così venivano chiamati socialisti e comunisti). Fu così che nel 1922 prese sempre più piede l’idea di una “rivoluzione fascista”.

Chi organizzò la marcia su Roma?

Per far sì che il Re Vittorio Emanuele III destituisse il governo in vigore per dare mandato ai fascisti, Mussolini e i suoi gerarchi volevano occupare Roma con un vero esercito di volontari e squadristi.

A orchestrare le operazioni furono i capi delle milizie fasciste Emilio De Bono, Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi, che vennero insigniti da Mussolini del titolo di “quadrumviri”, in richiamo alla storia romana  e ai più celebri triumviri Cesare, Crasso e Pompeo.

Sede delle operazioni fu la città di Perugia e il 27 ottobre 1922 treni carichi di fascisti iniziarono a confluire sulla capitale. Il giorno dopo, il fatidico 28 ottobre, circa 20.000 camicie nere si erano radunati nella capitale per occupare le sedi del potere politico. Mussolini, invece, rimase a Milano a seguire l’evolversi della situazione.

Come si svolse la marcia su Roma?

Il giorno della marcia su Roma, quasi 30.000 unità dell’esercito regio italiano erano schierate a difesa della capitale. Alle cinque del mattino Luigi Facta, capo del governo, aveva dichiarato lo stato d’assedio, un provvedimento che avrebbe dato il via libera all’esercito per attaccare e reprimere gli squadristi fascisti. Per eseguire però, tale ordine doveva essere controfirmato dal re, il quale invece si rifiutò di appoggiare la dichiarazione di Facta, lasciando che i fascisti sfilassero in città.

Se Vittorio Emanuele III avesse firmato, i soldati avrebbero presumibilmente disperso senza molti problemi le forze mussoliniane, inferiori per numero ed equipaggiamenti; tuttavia il re non si fidava molto dell’esercito e non voleva scatenare una guerra civile.

Il giorno dopo la marcia, il capo di casa Savoia si mise, dunque, in contatto con Mussolini, il quale partì verso Roma per ricevere il nuovo incarico. Il 30 settembre 1922, i due s’incontrarono e il leader del Pnf ottenne di formare un nuovo governo.

Nessuno lo sapeva, ma in quel giorno era iniziato il ventennio fascista, che si concluderà solo dopo una nuova e ancora più sanguinosa guerra mondiale.

Si trattò di un vero e proprio colpo di stato?

Nonostante nei 20 anni di regime il fascismo continuò a celebrare la marcia su Roma come l’inizio della rivoluzione fascista, non si trattò di un vero e proprio colpo di mano. Come abbiamo appena detto, infatti, Mussolini era già appoggiato da molti dei potenti del Paese, sovrano compreso, che speravano di poterlo controllare o, almeno, inglobare all’interno del sistema per arginare l’ondata socialista ed evitare nuove proteste da parte dei lavoratori.

Dal conto suo, lo stesso Mussolini non esitò a giurare fedeltà alla monarchia e allo Stato, anche se finì per trasformarlo in una dittatura. Emblematico in tal senso fu il suo discorso di presentazione al Parlamento:

“Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.


No alla ricetta Meloni per il Covid

27 ottobre 2022

Diverse sono le critiche che io potrei esporre ai contenuti del discorso di Giorgia Meloni alla Camera per l’ottenimento della fiducia. Ma una delle principali, secondo me, riguarda quanto ha detto  e quanto non ha detto a proposito di come è stata affrontata dai precedenti governi la pandemia.

Giorgia Meloni ha criticato aspramente le restrizioni effettuate per contrastare la pandemia e non ha fatto alcun riferimento ai vaccini, alla loro utilità.

E’ noto che la pandemia in Italia ha provocato un elevato numero di morti.

Ma se non fossero state adottate le restrizioni, quali i lockdown, l’utilizzo del green pass, l’obbligo delle mascherine, il numero dei morti sarebbe stato ancora maggiore.

La stessa considerazione può essere svolta per la campagna vaccinale. Se non fosse stata così estesa, come lo è stata, il numero dei morti sarebbe stato ancora più alto.

Meloni ha quindi strizzato l’occhio ai no vax e ai no green pass.

Ma tale atteggiamento è inaccettabile e molto pericoloso.

Molto pericoloso per il futuro.

Infatti nessuno può escludere che vi siano nuove ondate delle varianti che già ci sono state o di quelle, nuove, che potrebbero manifestarsi.

E se il ministero della Salute, guidato peraltro dal rettore dell’università di Tor Vergata a Roma, un medico, Schillaci, non certo no vax, dovesse seguire le indicazioni di Giorgia Meloni, si verificherebbe un grande problema.

E non solo perché si potrebbe determinare, di nuovo, un considerevole numero di morti ma perché alla fine, pur se con ritardo, le restrizioni, in primo luogo i lockdown dovrebbero comunque essere imposte, con evidenti conseguenze economiche negative, non certo auspicabili in un periodo in cui è probabile che si verifichi una recessione causata dagli elevati costi dei prodotti energetici.

L’Italia seguirebbe, in questo modo, il cattivo esempio dell’Inghilterra dove i lockdown furono ritardati e le altre restrizioni furono molto più lievi, con effetti negativi molto forti in termini di morti e di problemi economici.

Invece, il nuovo governo dovrebbe rilanciare la campagna vaccinale, favorendo le quarte e le quinte dosi. Ma non mi sembra che il nuovo governo, se seguirà le indicazioni di Giorgia Meloni, lo vorrà fare.

Anche il professor Andrea Crisanti, microbiologo e neosenatore del Pd, non ha apprezzato per niente il passaggio sulla pandemia nel discorso di Giorgia Meloni.

Ha infatti detto che liberticida non è stata la strategia anti-Covid, ma “le regioni del centro-destra che prima hanno negato il virus  e poi hanno remato contro le misure restrittive”.

Ha poi aggiunto che le parole della neopremier sono “prive di qualsiasi supporto scientifico e pronunciate da una smemorata. Meloni dovrebbe ricordare che a fare disastri senza paragoni al mondo durante la prima ondata è stata proprio la Regione Lombardia, amministrata dal centrodestra.

Che ha negato per parecchio tempo le pericolosità del virus e che negli anni ha costruito un modello di sanità centrato tutto sull’ospedale, lasciando sguarnito il territorio, che infatti non è riuscito a fare alcun filtro durante la prima ondata. Quando le persone morivano senza nemmeno arrivarci, in ospedale”.

Per il professore “anche in seguito, nel 2021, sono state le Regioni di centrodestra a sbracciarsi per chiedere misure meno restrittive. Avremmo potuto evitare decina di migliaia di morti rispetto agli 80.000 che abbiamo contato nonostante i vaccini”.

Infine, per Crisanti  è sbagliato oggi promettere che non si tornerà indietro nelle misure restrittive: “Predire il futuro con questo virus significa privilegiare un approccio ideologico anziché scientifico.

Sono affermazioni preoccupanti, perché significano che se mai ci dovessimo ritrovare in situazioni di necessità non verrebbero adottare le misure che servono”.


In Qatar più di 6.500 lavoratori immigrati morti per i mondiali di calcio

24 ottobre 2022

Più di 6.500 lavoratori immigrati sono morti in 10 anni per costruire gli stadi di calcio in Qatar, Paese che ospiterà la Coppa del mondo del 2022. Questa è l’analisi del “Guardian”, giornale inglese, che spiega anche come la maggior parte delle vittime siano lavoratori immigrati trattati come dei veri e propri schiavi.

Il Qatar è il primo Paese arabo che ospiterà i Mondiali di calcio: dopo l’assegnazione nel dicembre 2010, è iniziato un maxi-piano per la costruzione degli impianti. Sette stadi, un nuovo aeroporto, strade, sistemi di trasporto pubblico, hotel e una città per la finale.

I lavori però sono costati una media di 12 vittime a settimana: più di 6.500 in totale.

I dati provenienti da India, Bangladesh, Nepal e Sri Lanka hanno rivelato che sono state 5.927 le persone morte dal 2011 al 2020.

A questi si uniscono i dati dell’ambasciata del Pakistan in Qatar che hanno segnalato altri 824 decessi sul lavoro di cittadini pakistani.

Ai 6.500 morti vanno aggiunti i decessi di immigrati da altri Paesi come Filippine e Kenya  e le vittime degli ultimi mesi del 2020.

La maggior parte dei decessi è per cause naturali, in special modo insufficienza cardiaca  o respiratoria acuta. Diversi i decessi causati da stress termico: un rapporto dell’Onu stabilisce che per almeno 4 mesi all’anno i lavoratori hanno faticato sotto le temperature  del Qatar (che oscillano intorno ai 40° d’estate, arrivando fino ai 48°  quando ci sono le correnti desertiche).

Le famiglie delle vittime sono state lasciate senza risarcimenti o spiegazioni su come siano morti i loro cari.

Un portavoce del governo a Doha ha affermato che l’elevato numero di decessi è proporzionato alla quantità dei lavorati impiegati, oltre due milioni, pur sottolineando che ogni morte sul lavoro “è una tragedia”.

Il portavoce ha inoltre spiegato che tutti i cittadini e gli stranieri dispongono di un’assistenza sanitaria gratuita di prima classe. Versione smentita dagli avvocati  delle vittime, secondo i quali il Qatar non consente un’autopsia  per chiarire le morti “inaspettate e improvvise”.

“Con le misure di salute e sicurezza molto rigorose in loco… la frequenza degli incidenti nei cantieri della Coppa del Mondo Fifa è stata bassa rispetto ad altri importanti progetti di costruzione in tutto il mondo”, ha detto la Fifa, organo di governo del calcio mondiale, senza però fornire prove, come sottolinea sempre il “Guardian”,

La gran parte dei lavoratori immigrati sono stati trattati come degli schiavi.

Si è verificato infatti un totale loro assoggettamento al datore di lavoro. Vale a dire il sistema della kafala, la cosiddetta sponsorizzazione, che impedisce al dipendente di lasciare il Paese o di cambiare lavoro senza il necessario permesso.

Il patrocinio da parte del datore è dunque fondamentale nell’applicazione delle condizioni contrattuali per l’impiego dei lavoratori migranti, dal momento che uno straniero necessita di uno sponsor (kafeel) per superare le frontiere.

Non era il governo ad assegnargli uno status giuridico, bensì il datore stesso, responsabile di tutte le condizioni formali, dal permesso di soggiorno alla cessazione del rapporto, dal cambio di sponsor a qualsiasi altra autorizzazione.

A fronte di molteplici pressioni internazionali, iniziate proprio con l’assegnazione del Mondiale, il Qatar è intervenuto pesantemente sul sistema della kafala nel settembre del 2020, dopo oltre un decennio, e pochi operai hanno potuto usufruire del nuovo regime, approvato a soli due anni dal fischio d’inizio iridato.

I lavoratori immigrati, giunti in prevalenza dall’Asia meridionale (Nepal, India, Bangladesh e Filippine) ma anche dall’Africa, soprattutto da Ghana e Kenya, si sono a lungo ritrovati in un vicolo cieco che prevedeva un’espressa autorizzazione da parte del datore per cambiare lavoro o per abbandonare il Qatar.


Un’imposta sui grandi patrimoni contro la crisi energetica?

20 ottobre 2022

E’ noto che l’aumento dei prezzi del gas e dell’energia elettrica crea notevoli difficoltà alle famiglie e alle imprese italiane e, nel prossimo futuro, è possibile che la situazione peggiorerà.

Il governo Draghi ha stanziato alcune decine di miliardi per aiutare imprese e famiglie.

Tali aiuti sono stati però insufficienti.

Il nuovo governo si troverà in difficoltà anche per riconfermare gli aiuti concessi dal precedente governo se non si intende procedere ad uno scostamento di bilancio, se non si vuole cioè aumentare il deficit di bilancio e così anche il debito pubblico.

Infatti uno scostamento di bilancio, in considerazione del notevole livello che in Italia caratterizza il rapporto debito pubblico-Pil, potrebbe non esserci consentito dall’Unione europea e comunque potrebbe essere accolto in modo molto negativo dai mercati finanziari, determinando così un aumento considerevole dei tassi di interesse.

Inoltre, l’Unione europea non sembra avere in programma di concedere ai Paesi aderenti un flusso di aiuti come quelli previsti con il Recovery Plan, in seguito ai pesanti effetti economici negativi causati dalla pandemia, finanziati ad esempio tramite l’emissione di titoli pubblici comuni.

Le misure che, a giorni, l’Ue dovrebbe prendere per limitare gli incrementi dei prezzi dei prodotti energetici saranno insufficienti per limitare considerevolmente quegli incrementi.

E allora?

Dovranno essere previsti interventi specifici da parte dei singoli governi.

E il governo che potrebbe fare per trovare le risorse finanziarie necessarie?

Non c’è alternativa, o ridurre la spesa pubblica e aumentare le entrate tributarie.

La riduzione della spesa pubblica determinerebbe effetti negativi sull’evoluzione del Pil.

Rimane l’aumento delle entrate tributarie, soprattutto di quelle che non dovrebbero avere un effetto molto negativo sul Pil.

A mio avviso sarebbe auspicabile un’imposta, una tantum, sui grandi patrimoni, immobiliari e finanziari, che in breve tempo potrebbe fornire risorse economiche consistenti, accompagnata anche da una forte tassazione sugli extra profitti che soprattutto le grandi aziende operanti nel settore energetico hanno ottenuto in seguito all’aumento dei prezzi dei prodotti che forniscono e forse anche sugli extra profitti conseguiti dalle aziende farmaceutiche nel periodo della pandemia.

Ma il fulcro di questo intervento di politica fiscale sarebbe l’imposta sui grandi patrimoni.

Non credo che sarebbe uno scandalo prevederla, pur se nessun partito l’ha ipotizzata, anche perché è appena terminata una campagna elettorale nel corso della quale sono state avanzate proposte del tutto inattuabili dal punto di vista finanziario e figurarsi cosa sarebbe successo se qualche partito avesse ipotizzato di prevedere un’imposta sui grandi patrimoni.

Ma chiedere “sacrifici” a chi possiede grandi patrimoni per consentire a tutte le famiglie di riuscire ad arrivare alla fine del mese con le remunerazioni di chi al loro interno lavora e per impedire che molte aziende siano costrette a chiudere mi sembra ragionevole.

In questo modo inoltre si potrebbe anche determinare una redistribuzione del reddito dai ceti sociali più ricchi a quelli più poveri, considerando inoltre che nelle crisi economiche succedutesi a partire dal 2008 si è verificato l’opposto, e cioè una redistribuzione del reddito dai ceti più poveri a quelli più ricchi.


Peggiorata la salute mentale dei giovani con il Covid

17 ottobre 2022

Si dice spesso che bambini e giovani siano tra le fasce d’età meno colpite dal lato sanitario del Covid. E se questo è vero per le conseguenze più gravi dell’epidemia, non altrettanto può dirsi per altri aspetti importanti legati all’emergenza.

Di tale problematiche si occupa un rapporto diffuso da Cittadinanzattiva.

A partire dagli effetti economici della pandemia, con l’aumento della povertà assoluta in modo marcato soprattutto tra i bambini e le loro famiglie.

Ma anche in termini educativi, l’impatto sugli apprendimenti appare negativo, almeno stando ai primi dati emersi. Nel 2021 quasi uno studente su 10 ha concluso le superiori con competenze di base inadeguate: 2,5 punti in più rispetto al 2019.

L’emergenza Covid ha inoltre messo a dura prova la socialità di bambini e ragazzi, la loro possibilità di incontrarsi con gli amici e fare le esperienze formative per quell’età.

Tanti aspetti differenti, che convergono nell’indicare una sofferenza per bambini e ragazzi su numerosi fronti.

Anche su quello della salute: la condizione psicologica dei più giovani ha risentito dell’emergenza quanto e più di quella degli adulti, stando a quanto indicano diversi segnali.

E’ peggiorato l’indice di salute mentale tra i più giovani.

Monitorare un aspetto come questo sicuramente non è semplice. Uno strumento che consente una lettura del fenomeno è l’indice di salute mentale, elaborato dall’Istat all’interno degli indicatori sul benessere equo e sostenibile (Bes).

Tale indice, una volta disaggregato per età, sembra indicare un netto peggioramento del benessere psicologico tra ragazze e ragazzi tra i 14 e 19 anni, proprio a cavallo tra la rilevazione del 2020 e quella del 2021.

La fascia d’età più giovane, lungo tutta la serie storica, è quella con l’indice più alto, il che segnala un migliore benessere psicologico rispetto alle generazioni più anziane.

Tuttavia tra il 2020 e il 2021 il calo dell’indice di salute mentale è stato molto marcato tra gli adolescenti, passando in un solo anno da 73,9 a 70,3. Nonostante rimanga la fascia d’età con i valori più alti, questa diminuzione non va sottovalutata.

Segnala un peggioramento complessivo della condizione psicologica dei più giovani che il rapporto Bes attribuisce direttamente ai due anni di pandemia.

Inoltre, il peggioramento delle condizioni di salute mentale è stato asimmetrico rispetto al genere.

Per le adolescenti il calo dell’indice è stato molto più netto, passando in un solo anno da 71,2 a 66,6. Anche per i maschi si registra un peggioramento, sebbene più contenuto: da 76,5 a 74,1.

E’ interessante osservare come gli effetti psicologici sui più giovani siano andati incrementandosi con il prolungarsi della pandemia da Covid-19.

Nel primo anno di emergenza, almeno per questa fascia di età, non erano ancora emersi – in media – gli strascichi in termini di salute mentale di ragazzi e ragazze. Ed è soprattutto su queste ultime che l’impatto è stato maggiore.

Prendendo un altro indicatore, quello relativo alla soddisfazione personale, in media la situazione della popolazione è migliorata tra il 2020 e il 2021.

Il 46% delle persone dichiara una elevata soddisfazione per la propria vita nel 2021, un dato in crescita rispetto al primo anno di pandemia. 

Non così per i più giovani, fascia in cui si registra un calo di oltre 3 punti.

Nel 2021 è in aumento la quota di persone di 14 anni o più soddisfatte per la propria vita nel complesso (+1,7 punti percentuali rispetto al 2020), con l’eccezione dei giovani di 14-19 anni.

La crescita è stata più elevata della media tra gli ultrasettantacinquenni.

Anche l’indicatore di soddisfazione personale segnala lo stesso divario di genere. Tra le ragazze è più basso il livello di soddisfazione non solo verso la vita nel suo complesso, ma anche rispetto a singoli aspetti della quotidianità.

Rispetto alle relazioni familiari, l’8,9% delle 14-17enni è poco o per nulla soddisfatta (a fronte del 5,1% tra i maschi della stessa età). In quelle di amicizia, l’insoddisfazione raggiunge il 16,1% tra le ragazze, 3 punti in più dei coetanei (13,1%). E anche rispetto alla condizione di salute, le giovani appaiono più preoccupate: il 6,6% non è soddisfatta (tra i maschi la quota è al 2,7%).

Un altro aspetto rilevante è comprendere se vi siano delle differenze territoriali rispetto al benessere psicologico, in particolare nel passaggio critico della pandemia.

Nel 2021 sono due regioni del centro Italia, le Marche e l’Umbria, a registrare l’indice di salute mentale più basso, rispettivamente 65,3 e 65,4. Entrambe in calo rispetto all’anno precedente di poco meno di 3 punti.

L’indice segnala una miglior condizione psicologica della popolazione nella provincia autonoma di Bolzano e in Sardegna, con un indice di salute mentale che per entrambe supera quota 70.

Rispetto all’anno precedente la pandemia, il calo maggiore dell’indice si registra in Valle d’Aosta (-3,7), seguita da Marche, provincia autonoma di Trento, Umbria e Friuli-Venezia Giulia.

Complessivamente, sono 12 le regioni e province autonome in cui si è registrata una contrazione tra 2020 e 2021.

Il peggioramento della salute mentale verificatosi nei bambini e nei ragazzi con la pandemia è l’ulteriore dimostrazione del fatto che in Italia si dovrebbe operare per migliorare la situazione dei servizi pubblici che si occupano di salute mentale.

Infatti tale situazione è molto problematica.

Mancano risorse umane e finanziarie, tanto che i servizi pubblici non sono in grado di affrontare, per la gran parte della popolazione, le diverse patologie che si manifestano.

E, ancor più di quanto avviene per la sanità, il risultato è che, chi può permetterselo, si rivolge alle strutture privare.

Quindi, coloro che non hanno le capacità economiche per farlo, risultano privi di assistenza, con il conseguente aggravamento delle diverse patologie inerenti la salute mentale.

E neanche il Pnrr prevede risorse tendenti a cambiare notevolmente, come necessario, tale situazione.


Più di un quarto degli italiani a rischio povertà

13 ottobre 2022

Nel 2021 poco più di un quarto della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale (25,4%), quota sostanzialmente stabile rispetto al 2020 (25,3%) e al 2019 (25,6%).  In lieve peggioramento la disuguaglianza nel 2020: il reddito totale delle famiglie più abbienti è 5,8 volte quello delle famiglie più povere (5,7 nel 2019). Questo valore sarebbe stato decisamente più alto (6,9) in assenza di interventi di sostegno alle famiglie.

A tale conclusione arriva lo studio “Condizioni di vita e reddito delle famiglie”, realizzato dall’Istat, che si riferisce alla situazione nel 2021.

Il reddito netto medio delle famiglie era di 32.812 euro annui nel 2020. Gli interventi di sostegno (reddito di cittadinanza e altre misure straordinarie) ne hanno limitato il calo (-0,9% in termini nominali, -0,8% in termini reali).

Nel 2021, il 20,1% delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà (circa 11 milioni e 800.000 individui) avendo avuto, nell’anno precedente l’indagine, un reddito netto equivalente, senza componenti figurative e in natura, inferiore al 60% di quello mediano (ossia 10.519 euro).

A livello nazionale la quota rimane sostanzialmente stabile rispetto ai due anni precedenti (20% e 20,1% rispettivamente nel 2020 e nel 2019), mentre si osserva un certo miglioramento nel Mezzogiorno e al Centro e un aumento del rischio di povertà nelle ripartizioni del Nord.

Il 5,6% della popolazione (circa 3 milioni e 300.000 individui) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale, ossia presenta almeno quattro dei nove segnali di deprivazione individuati dall’indicatore Europa 2020; un valore che risulta più basso rispetto a quello dei due anni precedenti (5,9% nel 2020 e 7,4% nel 2019).

Inoltre, l’11,7% degli individui vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, ossia con componenti tra i 18 e i 59 anni che hanno lavorato meno di un quinto del tempo, percentuale in aumento rispetto all’11% dell’anno precedente e al 10% del 2019.

La popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale (indicatore composito), ovvero la quota di individui che si trova in almeno una delle suddette tre condizioni (riferite a reddito, deprivazione e intensità di lavoro), è pari al 25,4% (circa 14 milioni 983 mila persone), sostanzialmente stabile rispetto al 2020 (25,3%) e al 2019 (25,6%).

Questo andamento sintetizza, nel triennio considerato, il peggioramento dell’indicatore di bassa intensità lavorativa, il miglioramento di quello di grave deprivazione materiale e la sostanziale stabilità dell’indicatore del rischio di povertà nei tre anni.

Il Mezzogiorno rimane l’area del Paese con la percentuale più alta di individui a rischio di povertà o esclusione sociale (41,2%), stabile rispetto al 2020 (41%) e in diminuzione rispetto al 2019 (42,2%).

In questa ripartizione aumenta la quota di individui che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (20,6% contro 19,2% del 2020 e 17,3% del 2019) e diminuisce quella degli individui a rischio di povertà (33,1% rispetto a 34,1% del 2020 e 34,7% del 2019). La riduzione del rischio di povertà o esclusione sociale riguarda in particolare la Puglia e la Sicilia mentre è in sensibile aumento in Campania per l’incremento della grave deprivazione e della bassa intensità lavorativa.

Nel triennio 2019-2021 il rischio di povertà o esclusione sociale si riduce anche nel Centro (21% contro 21,6% del 2020 e 21,4% del 2019), trainato da Marche e Lazio, mentre aumenta in Umbria e rimane invariato in Toscana.

Nel Nord-Est, ripartizione con la minore quota di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, questo indicatore peggiora nel 2021 (14,2% rispetto al 13,2% del 2020 e del 2019), con il Trentino-Alto Adige e l’Emilia Romagna stabili sia nel 2020 sia nel 2021, il Friuli Venezia- Giulia in calo nel 2021 (dopo il sensibile aumento nel 2020), il Veneto in crescita.

Nel Nord-Ovest, il rischio di povertà o esclusione sociale riguarda il 17,1% degli individui (16,9% nel 2020, 16,4% nel 2019), con la Lombardia stabile, il Piemonte e la Liguria in aumento.

Nel 2021, l’incidenza del rischio di povertà o esclusione sociale continua a essere più elevata tra gli individui che vivono in famiglie con cinque o più componenti e risulta in aumento rispetto al biennio precedente (38,1% contro 36,2% del 2020 e 34,3% del 2019).

Più nel dettaglio, il rischio di povertà o esclusione sociale è maggiore tra gli individui delle famiglie con tre o più figli (41,1% rispetto al 39,7% nel 2020 e 34,7% del 2019), tra le persone sole (30,6%, come nel 2019, e in riduzione dal 31,6% del 2020), soprattutto tra quelle che hanno meno di 65 anni (34,6% contro 34,4% nel 2020 e 32,4% nel 2019), e nelle famiglie monogenitore (33,1% rispetto al 32,2% del 2020 e al 34,5% del 2019).

Il rischio di povertà o esclusione sociale si attenua per le altre tipologie familiari tranne che per le coppie con figli, per le quali aumenta al 25,3% rispetto al 24,7% del 2020 e al 24,1% del 2019.

Nel 2021, il rischio di povertà o esclusione sociale si riduce per coloro che vivono in famiglie in cui la fonte principale di reddito è il lavoro dipendente (18,4% rispetto a 18,7% del 2020 e 20% del 2019) e il lavoro autonomo (22,4%, da 24,3% nel 2020 e 25,1% nel 2019), mentre aumenta per coloro che possono contare principalmente sul reddito da pensioni e/o trasferimenti pubblici (33,9% da 33,5% nel 2020 e 31,8% nel 2019).

I componenti delle famiglie con almeno un cittadino straniero presentano un rischio di povertà o esclusione sociale sensibilmente più elevato (42,2%, da 45,1% nel 2020 e 38,1% del 2019) rispetto a chi vive in famiglie di soli italiani (23,4%, contro 23,1% del 2020 e 24% del 2019).

Vivere in famiglie con almeno uno straniero espone a un rischio di povertà e grave deprivazione doppio rispetto a quello di famiglie di soli italiani, mentre la bassa intensità lavorativa continua a essere minore (nel 2021 8,8% rispetto al 12,1% degli individui in famiglie di soli italiani) anche se la differenza si riduce a poco più di 3 punti percentuali nel 2021 dagli oltre 4 punti percentuali del 2020 e del 2019.

Tali dati dimostrano che nel 2021 la povertà in Italia non è diminuita come per certi versi ci si poteva aspettare, considerando che i maggiori effetti economici negativi esercitati dalla pandemia si sono verificati nel 2020.

E dimostrano anche che gli interventi rivolti a diminuire la povertà devono essere aumentati e non ridotti.

Si può discutere sul fatto che il reddito di cittadinanza sia lo strumento più efficace e se esso debba essere eliminato o modificato radicalmente.

Quello che è certo però, ripeto, è che la povertà in Italia debba essere contrastata in misura più consistente di quanto avvenuto fino ad ora e che, inoltre, si debba operare per ridurre le diseguaglianze economiche che sono aumentate, come del resto avvenuto negli anni precedenti al 2021.


Ritardi nell’attuazione del Pnrr?

10 ottobre 2022

Recentemente Giorgia Meloni ha affermato, in una riunione del suo partito, che vi sono ritardi nell’attuazione del Pnrr. Il premier ancora in carica Mario Draghi ha sostenuto invece, in risposta alla Meloni, che non vi è alcun ritardo. Chi ha ragione?

Probabilmente tutti e due.

Infatti, relativamente agli obiettivi fin qui indicatici dall’Unione europea, che riguardano principalmente la realizzazione di alcune riforme e l’inizio delle procedure per l’effettuazione degli investimenti pubblici previsti, ha ragione Draghi, nel senso che quegli obiettivi sono stati raggiunti, altrimenti la Ue non ci avrebbe già erogato le somme che ha realmente erogato al nostro Paese.

Ma per quanto concerne le spese effettuate però ci sono dei ritardi, non enormi, ma che non possono essere sottaciuti e che, se non superati, potrebbero non farci conseguire gli obiettivi previsti nel 2023.

A dimostrazione di quanto appena rilevato si può leggere quanto scritto dall’economista Gustavo Piga, peraltro non certo vicino a Giorgia Meloni:

“…Il programma di spesa approvato con l’Europa prevedeva la messa a terra di 13,8 (2020-21) più 27,6 (2022) miliardi, per un totale di 41,4, il 2% di Pil.

Già il Documento di economia e finanza del governo Draghi pubblicato la scorsa primavera aveva ridimensionato questi numeri, riducendo le somme spese nel biennio 2020-21 da 13,8 a 4,3 miliardi.

E’ venuto dunque subito a mancare alla crescita 2021 almeno lo 0,5% di crescita del Pil (se assumiamo un moltiplicatore pessimistico di circa 1 di tali investimenti) che avrebbero potuto già portare l’economia italiana a recuperare 7,1% e non 6,6% della perdita di Pil dovuta agli effetti del Covid nel 2020 (-9%). 

Con Gaetano Scognamiglio e Francesco Bono avvertimmo per primi di tale allarmante trend e concludevamo purtroppo profeticamente: ‘la situazione richiede un’attenzione mirata per allinearci alle previsioni di spesa e suggerisce la necessità che, d’ora in avanti, il monitoraggio sia effettuato non solo sul conseguimento dei traguardi e degli obiettivi – che rappresentano spesso lo start del processo di attuazione delle misure e non un punto di arrivo – ma anche sull’andamento della spesa’.


Apparentemente così non è avvenuto, se il ministro Franco nella recentissima nota di aggiornamento al Def ha corretto ulteriormente per il 2022 le cifre originarie: dal 2020 al 2022 ci dobbiamo aspettare che dei 41,4 miliardi solo 20,5, la metà, saranno spesi.

Anche il 2022 ha visto dunque altri 10 miliardi mancanti all’appello per abbeverare l’economia, riducendo la crescita potenziale del 2022 ad un 3,4% che avrebbe potuto essere il 4%, con una riduzione anche del rapporto debito-Pil.

In realtà la crescita 2022 avrebbe potuto essere più sostenuta, di fronte alla crisi mondiale, se il governo avesse – anche di fronte all’incapacità conclamata di fare i dovuti investimenti pubblici di cui sopra – mantenuto l’obiettivo programmatico di deficit-Pil al 5,6%, invece di quello con cui va a chiudersi l’anno, 5,1%: uno ‘scostamento al rovescio’ che non aveva motivo di essere e che avrebbe invece (senza contestazioni dall’Europa) potuto arricchire ulteriormente di 10 miliardi di aiuti a imprese e famiglie i recenti decreti del governo uscente.

In realtà, questo esecutivo ha chiaramente sempre sostenuto la priorità degli obiettivi di riduzione del rapporto deficit-Pil (obbligatori ai sensi dell’art. 10 del regolamento del Pnrr stesso, oltre a quelli senza immediato impatto sul Pil delle riforme in formato ‘traguardi-obiettivi’ del Pnrr, tutti apparentemente raggiunti.

Alla luce di ciò è difficile resistere alla tentazione di sospettare che il lento svilupparsi di cui sopra degli investimenti pubblici previsti dal Pnrr abbia avuto a che fare anche con tale miope riluttanza di mettere a rischio il quadro di finanza pubblica.

E’ altresì inevitabile ammettere che una ampia componente del fallimento attuale ha a che vedere con la scarsa capacità amministrativa delle nostre stazioni appaltanti, anche una volta tenuto conto della parziale giustificazione dell’aumento dei costi delle materie prime che ha portato a rivedere in corsa le dimensioni dei bandi di gara.

Da tempo ammonivamo che il tallone di Achille di questa gigantesca e necessaria operazione Pnrr era la assoluta mancanza di pensiero strategico-organizzativo sul come il nostro personale amministrativo avrebbe mai potuto assolvere la missione prevista senza un sostanziale investimento in capitale umano di qualità, ben remunerato, e una precisa riorganizzazione delle stazioni appaltanti sul territorio, prediligendo l’ideale ambito provinciale appropriatamente coordinato.

Avevamo anche messo in guardia delle conseguenze di una simile macroscopica disattenzione italo-europea: si sarebbe finiti presto, dati anche i tempi stretti, a fare gare grandi, meno utili, meno sostenibili in senso sociale ed ambientale, e a finire comunque per perdere una parte significativa dei finanziamenti.


Se il prossimo governo intende rimediare a tutto ciò deve pretendere che il Pnrr sia modificato sotto queste due dimensioni: primo, il rientro di deficit-PIL che dobbiamo mettere in atto per l’anno 2023 su cui incombe una recessione non deve essere quello previsto ad aprile di quest’anno, quando per il 2023 ci si attendeva una crescita del 2,4%; secondo, va rinegoziata con Bruxelles (assieme al Portogallo che se ne è fatto meritoriamente primo portavoce) la scadenza del Pnrr di almeno un anno e va richiesto uno storno di una decina miliardi di euro per la creazione di una nuova governance delle nostre stazioni appaltanti. E’ in gioco come sempre il futuro dell’Unione europea”.

Comunque al di la di queste due ultime proposte, risulta evidente che l’attuazione degli investimenti previsti nel Pnrr si è scontrata con un problema strutturale della nostra Pubblica Amministrazione, la ridotta e lenta capacità di spesa, causa peraltro dei ritardi che in passato hanno spesso caratterizzato l’utilizzo dei fondi, di altra natura, concessi dall’Unione europea.


Il massacro e le discriminazioni degli Jenisch

6 ottobre 2022

Prima e dopo la seconda guerra mondiale gli Jenish furono oggetto di veri e propri massacri e di discriminazioni, frutto anche di un programma eugenetico. Ma chi sono gli Jenish? Sono orgogliosi della loro identità, la loro cultura differisce profondamente da quella delle etnie romaní, con cui non vogliono essere confusi, parlano una propria lingua, di origine germanica, con influssi ebraici, rotwelsch e celtici, con qualche prestito dalla lingua romanì. L’origine degli Jenisch non è certa, ma essi si definiscono diretti discendenti dei celti. 

Attualmente gli Jenisch che vivono in Germania sono 220.000, Di tutti gli Jenisch tedeschi solo 29.000 sono nomadi e viaggiano in roulotte. Nella Svizzera ci sono 35.000 Jenish, di questi si calcola che 5.000 sono nomadi. In Austria vivono 35.000 Jenisch, di questi circa 3.500 sono nomadi.

Inoltre in Ungheria  si segnalano 60.000 Jenisch e 11.000 in Bielorussia con un numero imprecisato di nomadi. 70.000 nel 1990 erano invece gli Jenisch in Belgio e 2.800 in Lussemburgo. In altri Paesi dell’Europa occidentale come la Francia e l’Olanda  manca un censimento certo.

Gli Jenisch, così come i Rom e i Sinti furono aspramente perseguitati nella Germani nazista,  rinchiusi nei campi di concentramento e pagarono un alto prezzo in termini di vite umane.

A metà degli anni trenta infatti i nazisti tedeschi iniziarono la “lotta contro la piaga zingara”, non solo contro Rom Sinti, ma anche contro i cosiddetti “vagabondi erranti zingari”, ovvero gli Jenisch.

Uomini, donne e bambini furono discriminati, prima schedati nel cosiddetto libro degli zingari, furono poi sterilizzati perché ritenuti inferiori. La polizia criminale inoltre, durante il periodo nazista, emise carte di identità con le loro impronte digitali.

Un imprecisato numero furono arrestati e portati insieme con gli altri zingari nei campi di concentramento e di sterminio, soprattutto ad Auschwitz-Birkenau. 

Gli Jenisch subirono, proprio perché tedeschi, un trattamento particolare.

Il dizionario dell’Olocausto aiuta a far luce su questo particolare tipo di trattamento: “La diversità di trattamento riservata agli zingari puri e ai Mischlinge zingari era in antitesi con la politica seguita nei confronti degli ebrei: gli ebrei puri dovevano essere uccisi, mentre coloro che avevano metà o un quarto di sangue ebreo venivano in genere risparmiati.

Al contrario, i Mischlinge zingari furono condannati allo sterminio perché Himmler e i criminologi tedeschi erano convinti che solo la feccia del popolo tedesco – come gli Jenisch, commercianti ambulanti che vivevano di espedienti e parlavano un dialetto particolare misto a termini di origine ebraica e romanì – potesse sposarsi con gli zingari”.

In Svizzera gli Jenisch non furono trattati meglio.

Il programma “Kinder del Landstrasse” (per il recupero dei bambini di strada) fu attuato dal 1926 al 1974  dall’associazione svizzera “Pro-Juventute” e si tradusse in un dramma nazionale, tacciato da molti come una forma di vero e proprio genocidio. 

Fu il governo svizzero a condurre e sostenere una politica semi-ufficiale che verteva ad istituzionalizzare i genitori Jenisch  come “malati di mente” tentando di far adottare i loro figli da più “normali” cittadini svizzeri.

Questo modo di procedere fu giudicato come un tentativo di eliminare la cultura Jenisch in nome del miglioramento della specie umana: l’eugenetica. 

Secondo alcune fonti, 590 bambini furono sottratti ai genitori e messi in orfanotrofi, in istituti psichiatrici e persino in prigioni.

Il programma coinvolse dai 600 ai 2.000 bambini nomadi, che di fatto, furono allontanati in tenera età dalle famiglie originarie. Quel programma è tutt’oggi un tema molto scottante per la coscienza dei cittadini elvetici.

Ma il dramma di questi bambini, non finì lì, come fa notare la dottoressa Iacovino: “Numerosi furono i casi di abuso sessuale sui bambini e soprattutto sulle bambine e sugli adolescenti, vittime di questo progetto di risanamento, non protetti dai genitori, che nel frattempo dovevano combattere con la depressione, l’alcolismo e i problemi interpersonali sorti tra i partner. Molti furono i casi di morte precoce”

Solo recentemente il governo svizzero ha riconosciuto la disumanità di quel programma, come fa notare ancora la dottoressa Iacovino : “Nel 1987, il presidente della commissione della fondazione, Bernasconi, pronunciò per la prima volta le scuse da parte della Pro-Juventute verso gli appartenenti al popolo jenisch e, nel 2000, la Svizzera ratificò la convenzione dell’Onu del 1948 riguardo alla prevenzione e alla punizione del genocidio. 


Oltre 1.000 morti per le alluvioni in Pakistan

3 ottobre 2022

Il bilancio delle alluvioni provocate in Pakistan da prolungate e intense piogge monsoniche è tragico. Oltre 1.000 i morti,  di cui un terzo bambini, 50.000 sfollati già avviati nei campi di raccolta, 33 milioni di abitanti interessati più direttamente dalla catastrofe ambientale su un terzo del territorio nazionale (di cui 6,4 milioni in condizioni di bisogno estremo, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità).

E nonostante questi dati i media italiani si occupano poco o niente di quanto è avvenuto e sta avvenendo in Pakistan.

Oltre a villaggi e edifici, ad essere maggiormente colpite sono state anche le infrastrutture.

L’autorità per la gestione dei disastri del Pakistan ha affermato che fino ad ora sono stati danneggiati 162 ponti e che oltre 3.000 chilometri di strade sono state spazzate via.  

Si cerca di utilizzare qualunque mezzo disponibile per far arrivare i pochi aiuti giunti sino ad ora nelle aree più remote delle regioni del Belucistan e del Sindh, le più flagellate dalle piogge.

“Stiamo usando barche, cammelli, qualunque mezzo possibile per consegnare aiuti nelle aree più critiche”, ha affermato Faisal Amin Khan, che amministra la provincia montuosa di Khyber Pakhtunkhwa, che è stata gravemente colpita.

Lo stesso Khan ha fatto riferimento alle inondazioni del 2010, fino a oggi tra le peggiori mai registrate nella storia del Pakistan. Quell’anno uccisero più di 1.700 persone e lasciarono milioni di senzatetto.

Un bilancio a cui si potrebbe arrivare a breve a giudicare dall’emergenza in costante peggioramento. Un disastro descritto dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, come il peggiore che avesse mai visto.

Il governo di Islamabad ha chiesto aiuti alla comunità internazionale per far fronte all’emergenza, con i primi voli provenienti da Turchia ed Emirati Arabi Uniti arrivati nelle scorse ore.

Nonostante ciò, al momento intere zone restano isolate e l’intervento dei soccorsi è impossibile in molte di queste.

Sono già stati accertati i primi casi di malaria nella regione di Sindh, mentre resta alta l’allerta già sollevata dal presidente della Mezzaluna Rossa pakistana, così è chiamata la Croce Rossa nei Paesi islamici, sul diffondersi di altre malattie come il colera, favorite dal mix di umidità e alte temperature.

Lo stesso premier Shehbaz Sharif che visitando le regioni settentrionali ha segnalato come “il raccolto di riso sia stato spazzato via e frutta e vegetali siano scomparsi”, insieme a si stima 700.000 capi di bestiame.

L’Unicef ha scattato un tragica fotografia della situazione dei minori nella catastrofe. Ricordando che sono 16 milioni i bambini colpiti direttamente dal disastro, di cui tre milioni richiedono un immediato intervento umanitario per evitare la diffusione di malattie.

Il fondo Onu per l’infanzia ha confermato che finora 287.000 abitazioni sono andate completamente distrutte e altre 662.000 in modo parziale, 17.566 gli edifici scolastici rasi al suolo o lesionati.

La disponibilità di acqua sicura è pure gravemente ridotta, con il 30% degli acquedotti oggi in varia misura danneggiati.

A ricordare l’emergenza ma anche il necessario supporto internazionale è l’ambasciatore della Repubblica islamica del Pakistan in Italia, Jauhar Saleem: “L’Italia, da sempre amica del Pakistan, è stata di grande supporto nei momenti di bisogno, come nella devastazione delle alluvioni del 2011”.

E ha auspicato che anche in questo caso l’Italia aiuti il Pakistan.

“Mentre sono in corso sforzi immani per sostenere le persone colpite dalle piogge e dalle inondazioni, la solidarietà internazionale è fondamentale per rispondere adeguatamente ai bisogni immediati.

E’ necessario stanziare al più presto maggiori fondi”, ha afferamto Simone Garroni direttore di Azione contro la fame. 

“La catastrofe che questo Paese sta vivendo – ha aggiunto – ci chiama ad intervenire subito, ma anche a riflettere sugli effetti di un clima impazzito che, lo ricordiamo, è una delle tre cause strutturali della fame nel mondo.

Si tratta di un fatto che sarebbe criminale continuare a ignorare e per il quale è urgente un impegno straordinario da parte della comunità internazionale, a cominciare dalla prossima conferenza per il clima Cop27”.

E poi probabile che le alluvioni continuino ancora e che le morti e le distruzioni aumentino notevolmente.

Certamente gli aiuti si devono intensificare.

Ma occorre riflettere che quanto sta avvenendo in Pakistan, e in misura minore in altri Paesi, è la evidente conseguenza dei cambiamenti climatici.

Pertanto concordo con quanto sostenuto da Garroni sulla necessità che la comunità internazionale si impegni davvero per contrastare le cause che determinano i cambiamenti climatici, cosa che fino ad ora non è avvenuto in misura sufficiente.