Ancora 500 elettroshock ogni anno

29 novembre 2012

Gli elettroshock vengono ancora praticati in Italia. Lo denuncia Psichiatria democratica che, pertanto, insieme ad altre associazioni, ha promosso la campagna “no elettroshock”.

Di questa campagna riferisce Marco Sarti in un articolo pubblicato su www.linkiesta.it.

“Nel biennio 2008-2010 in Italia sono stati effettuati quasi 1.500 trattamenti.

‘Inutili e violenti’ secondo alcuni esperti. Ora parte la ‘battaglia di civiltà’ di Psichiatria democratica, contro quella che ‘non è una terapia, ma un trattamento approssimativo e ascientifico’.

Nel Paese sono 9 le strutture specializzate.

‘Se fossi matto vi parlerei degli elettroshock subìti negli anni addietro, dei terribili momenti dell’attesa prima dell’applicazione degli elettrodi, delle urla, dell’intenso odore di urine, della voce dell’infermiere che ti chiama per nome e del medico che questo nome nemmeno conosce’.

Il manifesto della campagna ‘no elettroshock’ inizia così. Un impegno di Psichiatria democratica – la società fondata da Franco Basaglia negli anni Settanta – e numerose altre associazioni per fermare la pratica della terapia elettroconvulsivante.

Negli ospedali italiani si ricorre ancora all’elettroshock. Nel triennio 2008-2010 sono stati eseguiti poco più di 1400 trattamenti. Lo confermano i dati consegnati dal ministro della Salute Renato Balduzzi alla commissione di inchiesta sul sistema sanitario nazionale.

Anche per questo la scorsa estate le parlamentari Delia Murer, Luisa Bossa e Maria Antonietta Farina Coscioni hanno presentato un’interrogazione al ministro. ‘Interrogazione cui ancora non abbiamo ricevuto risposta’ raccontano in una conferenza stampa a Montecitorio.

Ma l’elettroshock non è una terapia, denunciano le associazioni che hanno aderito alla mobilitazione. ‘È un trattamento approssimativo, ascientifico, empirico, usato ideologicamente per far credere in una pronta risoluzione dei sintomi. E le sue presunte indicazioni trovano oggi ben più adeguati trattamenti riabilitativi, farmacologici, assistenziali, psicoterapeutici’.

Alla Camera le tre parlamentari, insieme al segretario di Psichiatria democratica Emilio Lupo e al presidente Luigi Attenasio, lanciano l’allarme. Nel nostro Paese pochi sanno che la pratica è ancora così diffusa. ‘Chiediamo di fare chiarezza sull’uso di questo metodo che a mio parere non rispetta la dignità della persona’ spiega Murer. Un’interrogazione, spiega la radicale Farina Coscioni ‘per capire il valore, o meglio il disvalore, di questo trattamento’…

La campagna di comunicazione che presto arriverà nelle principali città italiane è una ‘battaglia di civiltà’ spiegano…

Intanto le terapie elettroconvulsivanti continuano a essere praticate. In Italia le strutture attrezzate sono nove, come spiegano durante la conferenza stampa: l’ospedale di Montichiari, quello di Oristano, il Santissima Trinità di Cagliari. E ancora gli ospedali di Brunico, Bressanone e la clinica universitaria di Pisa. Più tre cliniche private convenzionate: la casa di cura San Valentino di Roma, Santa Chiara di Verona e Villa Baruzziana di Bologna…

Un trattamento spesso accompagnato da altre discusse pratiche. Come la contenzione meccanica (la pratica di legare il paziente al letto o di immobilizzarlo con una camicia di forza). ‘Nel Lazio – spiegano alla Camera dei deputati – solo nel 2009 sono state eseguite 25.471 ore di contenzione meccanica. Con una durata media di 18 ore ogni volta’…”.


Chi sono gli stranieri immigrati

27 novembre 2012

E’ stato presentato dalla Caritas-Migrantes l’annuale dossier statistico Immigrazione, nel quale sono contenute numerose informazioni relative al fenomeno migratorio nell’anno 2011, in Italia. In una nota pubblicata su www.gruppoabele.org viene analizzato questo dossier.

“I dati emersi, che comprendono sia statiche a livello mondiale, regionale europeo che a livello italiano, aggiornano la situazione dell’immigrazione in Italia nei suoi vari aspetti, da quelli socio-economici a quelli culturali, giuridici e religiosi.

I punti salienti del rapporto consentono di farsi un’idea completa del quadro italiano.

Possiamo infatti dire con certezza che i cittadini stranieri regolarmente presenti sono poco più di cinque milioni, che provengono prevalentemente dal continente Europeo (Romania in primis, con quasi un milione di presenze) e che sono distribuiti per la maggior parte nel Nord Italia.

Tra i non-comunitari, la nazionalità più presente è quella marocchina con oltre mezzo milione di persone.

I permessi di soggiorno scaduti e non rinnovati sono meno di 300.000. Gli occupati sono due milioni e mezzo e il bilancio tra costi e benefici indica che la loro presenza ha portato in Italia un surplus nelle casse statali di quasi due miliardi di euro.

Le comunità di persone immigrate in Italia hanno dato luce nel 2011 a quasi 80.000 bambini, portando a quasi 600.000 il numero di minori nati lo scorso anno nel nostro paese. Quasi 800.000 sono i minori stranieri iscritti a scuola (il 44% di loro è nato in Italia, parla e studia l’italiano… ma per richiedere la cittadinanza, data la legge attuale italiana, dovrà attendere i 18 anni).

La religione professata è prevalentemente quella cristiana (in ordine di prevalenza: ortodossi, cattolici, protestanti). Segue quella musulmana.

Il comportamento degli ‘autoctoni’ nei confronti delle persone migranti presenti in Italia è ambivalente: c’è chi pensa che siano troppi, c’è chi pensa che siano trattati male.

Un dato certo è che l’immigrazione continuerà a crescere: entro il 2065 infatti, si prevede una diminuzione degli italiani di 11 milioni e mezzo (28,5 milioni di nascite e 40 milioni di decessi) e un aumento delle comunità non italiane che porteranno la presenza di migranti in Italia a 14 milioni (17,9 milioni di ingressi contro 5,9 milioni di uscite).

Premesso ciò, Caritas e Migrantes auspicano che vengano poste in essere adeguate politiche di accoglienza e allo stesso tempo un’assistenza sociale più permeante, che recuperi il lavoro sommerso a cui molti immigrati sono destinati, che faccia emergere le presenze non registrate e che accompagni un cambiamento culturale all’insegna della condivisione, dello scambio e dell’incontro tra culture diverse.

Nonostante il dossier sia (necessariamente) ricco di cifre e statistiche, ciò che contraddistingue il lavoro di Caritas-Migrantes nella raccolta dei dati sull’immigrazione è la lettura del contesto in cui il fenomeno migratorio si sviluppa, l’attenzione alle difficoltà che i migranti incontrano nella ricerca di un’integrazione possibile col territorio di arrivo, i nodi critici su cui è indispensabile lavorare per comporre i contrasti che nascono inevitabilmente dalla convivenza: le persone non sono numeri e forse anche per questo, fin dalla copertina del dossier, sono presentati alcuni di quei volti che hanno intrapreso un percorso migratorio per migliorare il futuro proprio e dei propri figli”.


In Italia pochi i rifiuti riciclati e molte le esportazioni clandestine

25 novembre 2012

L’Italia è agli ultimi posti in Europa per il riciclo dei rifiuti ed inoltre è molto rilevante la quantità di essi che viene esportata clandestinamente. Questi sono alcuni dei risultati di una ricerca realizzata dall’Eurispes.

I contenuti della ricerca sono esaminati in un comunicato dell’agenzia Dire (www.dire.it).

“Nel settore del riciclo della plastica e di altri materiali ‘l’Italia tra gli ultimi in Europa’. Il nostro Paese, infatti, ‘seguendo la politica delle discariche o dell’incenerimento, non riesce ad interpretare un ruolo virtuoso, tanto da essere stata inserita dalla Commissione Europea agli ultimi posti della classifica sulla gestione dei rifiuti (20ma su 27)’.

L’Italia, quindi, ‘in compagnia di Bulgaria, Cipro, Estonia, Lettonia, Romania e Slovacchia registra gravi carenze nelle politiche di prevenzione dei rifiuti e non incentiva le alternative al conferimento in discarica’.

Però ‘ogni anno in Italia una quantità enorme di rifiuti, circa 26 milioni di tonnellate, viene diretta al mercato dell’esportazione clandestina’.

Un atteggiamento ‘miope che potrebbe provocare la perdita degli ingenti finanziamenti che verranno erogati da Bruxelles, tra il 2014 e il 2020, solo a quegli Stati membri che privilegiano il riutilizzo e il riciclaggio rispetto all’incenerimento o alla discarica’.

Così la ricerca ‘Plastica e riciclo dei materiali: un’altra via è possibile’, realizzata da Eurispes in collaborazione con Polieco e presentata con la Federazione Green Economy.

‘A differenza degli altri paesi industrializzati, l’Italia fa ancora eccessivo ricorso alle discariche come modalità di smaltimento dei rifiuti sia urbani che industriali – è la denuncia – mentre nel settore del riciclaggio scarse sono le iniziative che, tramite processi ed impianti tecnologicamente avanzati, recuperano materie prime da rifiuti’.

Fino ad oggi, infatti, ‘l’alternativa alla discarica è stata individuata nell’uso dei termovalorizzatori che a lungo hanno dimostrato la loro parziale efficacia’…

Intanto, però, prospera il traffico illecito delle Ecomafie.

‘L’Asia, in particolare la Cina ed Hong Kong, si è affermata negli anni più recenti come catalizzatore dei flussi di rifiuti plastici provenienti dai paesi dell’Europa, che tornano sotto forma di prodotti lavorati – segnala la ricerca – e se a questo si aggiunge che circa un 1/5 dei manufatti mondiali vengono realizzati in Cina, si può facilmente comprendere come quello dei rifiuti sia uno dei flussi fondamentali per alimentare la produzione cinese, in grado di sostituire materie prime che sarebbero più costose’.

In tutto ciò, però, ‘ogni anno in Italia una quantità enorme di rifiuti, circa 26 milioni di tonnellate, viene diretta al mercato dell’esportazione clandestina’.

E il perchè si capisce: ‘spedire illegalmente un container di 15 tonnellate di rifiuti verso l’Oriente costa solo 65.000 euro, contro i 60.000 necessari allo smaltimento legale’.
Nello stesso tempo ‘gli impianti di riciclaggio italiani sono sottoutilizzati: per lavorare a regime avrebbero bisogno di almeno il 25% di materiale plastico in più’…

Secondo i dati pubblicati dal rapporto ‘Ecomafia globale’ di Legambiente e Polieco, ‘gli scarti plastici che hanno valicato le frontiere italiane nel 2010 sono stati circa 200.000 tonnellate per un valore di 54 milioni di euro, cui vanno aggiunti circa 22.000 tonnellate di pneumatici fuori uso, per altri 21 milioni di euro’.

A questi flussi regolari, però, vanno aggiunti quelli irregolari, ben più corposi, ma difficili da stimare…”.


Il successo dei malati di Sla

22 novembre 2012

Le richieste dei malati di Sla sono state accolte. Il governo infatti ha accettato di raddoppiare il fondo per la non autosufficienza, che passerà da 200 a 400 milioni.

In un articolo pubblicato su www.superabile.it si esamina quanto avvenuto.

“Il fondo per la non autosufficienza sarà raddoppiato: dagli attuali 200 milioni si passa ai 400, la cifra chiesta a gran voce dal comitato ‘16 novembre’, che sospende subito ogni forma di protesta invitando i malati in sciopero della fame a riprendere l’alimentazione.

Secondo quanto riferito dallo stesso comitato, la decisione assunta durante l’incontro che la delegazione dei malati di Sla ha avuto stamane con il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo è stata quella di aggiungere altri 200 milioni ai 200 già attualmente previsti dalla legge di stabilità. Polillo ha però chiesto al tempo stesso che siano forniti al ministero i dati relativi all’effettivo numero dei disabili gravi e gravissimi presenti in Italia.

A raccogliere tali numeri sarà la commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, il cui presidente, il senatore Ignazio Marino (Pd) ha partecipato all’incontro di stamane. Secondo Marino per raccogliere i dati, in collaborazione con le Asl, dovrebbero essere sufficienti cinque giorni: c’è il tempo dunque perché le cifre raccolte possano essere a disposizione del Senato quando a palazzo Madama la prossima settimana si dovrà materialmente intervenire per aumentare le risorse per il fondo non autosufficienza. La discussione alla Camera infatti si è conclusa e oggi arriva il voto di fiducia.

Al di là dei numeri che dovranno essere raccolti, comunque, il raddoppio del fondo – precisa la portavoce del comitato Mariangela Lamanna – ‘non è vincolato ai dati che emergeranno’: possiamo anticipare in ogni caso che i malati gravissimi in Italia sono almeno 30mila’.

‘Ci riteniamo soddisfatti per il momento – afferma ancora facendo un bilancio dell’intera situazione – e vigileremo affinché tutto questo si concretizzi: nel frattempo invitiamo tutti i disabili che protestano a riprendere l’alimentazione’. Erano almeno sessanta, in tutta Italia, i malati che avevano sospeso la loro alimentazione.

Marino, al termine dell’incontro, si è detto ‘profondamente umiliato nel vedere che in un paese civile persone in queste condizioni debbano ricorrere a queste forme di protesta per esprimere i propri bisogni’. Quanto al futuro della discussione in Senato, ‘non potremo evitare di tentare tutte le strade per risolvere il problema’”.


Le carceri scoppiano

20 novembre 2012

Il sovraffollamento rappresenta uno dei problemi più importanti che contraddistinguono le carceri italiane. E’ quanto emerge dal IX rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone.

I contenuti del rapporto vengono esaminati in un articolo pubblicato su www.quotidiano.net.

“L’Italia resta il paese con le carceri più sovraffollate nell’Unione Europea: il nostro tasso di affollamento è oggi infatti del 142,5% (oltre 140 detenuti ogni 100 posti: la media europea è del 99,6%).

Al 31 ottobre infatti la capienza regolamentare complessiva dei 206 istituti penitenziari è di 46.795 posti, a fronte di una presenza di 66.685 detenuti. E’ quanto emerge dal IX rapporto sulle condizioni di detenzione senza dignità dell’associazione Antigone, presentato a Roma. Le regioni più affollate sono Liguria (176,8%), Puglia (176,5%) e Veneto (164,1%). Le meno affollate Abruzzo (121,8%), Sardegna (105,5%) e Basilicata (103%).

Il 41,2% dei detenuti in Italia ha meno di 35 anni: ‘Non ci sono dati nazionali affidabili, ma nelle carceri toscane sono malati il 73% dei detenuti, e non c`è motivo di ritenere che altrove le cose stiano in modo diverso’. Le patologie più comuni sono i disturbi psichici (26,1%), seguiti dalle malattie dell`apparato digerente (19,3%) e da malattie infettive e parassitarie (12,5%).

Per Antigone ‘un dato ancora più inquietante fornito da questa ricerca è quello relativo agli atti di autolesionismo o ai tentati suicidi registrati nella storia clinica dei detenuti oggetto della rilevazione. Tra costoro il 33,2% avrebbe posto in essere atti autolesivi ed addirittura il 12,3% avrebbe tentato il suicidio’…

‘La legge n. 199 del 2010 – ricorda Antigone – prevedeva la possibilità di scontare l`ultimo anno di pena in detenzione domiciliare, misura poi estesa con il decreto del dicembre 2011 a 18 mesi. Al 31/10/2012 hanno beneficiato di questa possibilità 8.267 detenuti. Tra costoro 539 donne (il 6,5%) e 2.283 stranieri (il 26,7%).

Il numero sembra significativo, ma è in parte un abbaglio. Si tratta anzitutto di un dato di flusso, e non statico, che va dunque messo in relazione non con il numero dei detenuti presenti, ma con quello dei detenuti usciti dal carcere dall`entrata in vigore della legge, verosimilmente oltre 140.000. Una piccola cosa dunque’.

I 66.685 detenuti nelle nostre carceri al 31 ottobre 2012 sono per lo più uomini (le donne, 2.857, rappresentano solo il 4,2% delle presenze) e italiani (provenienti soprattutto da Campania 26,3%, Sicilia 17,9%, Puglia 10,5%, Calabria 8,6%, Lombardia 7,3% e Lazio 6,5%), ma gli stranieri, 23.789, rappresentano comunque il 35,6% dei detenuti, una percentuale, stabile ormai da tempo, anche questa con pochi paragoni in Europa.

Le nazionalità più rappresentate degli stranieri sono quella marocchina (19,4%), romena (15,3%), tunisina (12,7%), albanese (11,9%) e nigeriana (4,4%). Le percentuali più alte di stranieri tra i detenuti si registrano in Trentino Alto Adige (69,9%), Valle d’Aosta (68,9%) e Veneto (59,1%). Le più basse in Basilicata (12,3%), Campania (12,1%) e Molise (11,8%).

Tra i detenuti che al 30 giugno avevano almeno una condanna definitiva, il 26,5% (10.296 persone) aveva un residuo pena inferiore all’anno, 18.090 (il 46,6%) inferiore ai due anni e 23.596 (il 60,8%), inferiore ai tre anni. Suggerisce Antigone: ‘Se con un’azione normativa si facessero uscire quelli che devono scontare meno di tre anni di pena le carceri tornerebbero nella legalità contabile e costituzionale’.

‘Il numero delle persone con un residuo pena inferiore all’anno – continua Antigone – è peraltro uno degli indici dell’insuccesso della legge n. 199. Al momento della sua entrata in vigore erano 11.224, il 29,9% dei condannati e solo mille in più di oggi. Gli ergastolani al 31/20/2012 erano 1.567. Alla fine del 2005 erano 1.224’.

I reati più diffusi tra i detenuti in Italia sono quelli contro il patrimonio, subito seguiti da quelli previsti dal Testo Unico sugli stupefacenti, ed infine da quelli contro la persona. Se si guarda però ai soli detenuti stranieri, le prime due posizioni si invertono, ed i reati maggiormente diffusi diventano quelli previsti dalla legge sulle droghe. In base agli ultimi dati del Consiglio d’Europa erano condannati per aver violato la legge sulle droghe in Italia il 38,4% dei detenuti. In Francia questa percentuale era del 14,1%, in Germania del 14,8, in Spagna del 28% ed in Inghilterra e Galles del 15,6%.

Delle 66.685 persone detenute al 31 ottobre, 26.804 (il 40,1%) non sconta una condanna definitiva ma è in carcere in custodia cautelare: ‘Nonostante vi sia una decrescita rispetto al 2011 – dice l’associazione Antigone – in base ai dati pubblicati dal Consiglio d’Europa nel marzo 2012 questa percentuale è del 23,7% in Francia, del 15,3% in Germania, del 19,3% in Spagna e del 15,3% in Inghilterra e Galles. La media dei paesi del Consiglio d’Europa è del 28,5% e questo dato rappresenta certamente l’anomalia maggiore del nostro sistema’”.


3.000 morti per l’amianto ogni anno

18 novembre 2012

In Italia circa 3.000 persone muoiono per l’esposizione all’amianto. Lo sostiene Chiara Criastilli in un articolo pubblicato su www.rassegna.it.

“Ogni anno, in Italia, circa 3.000 persone muoiono per esposizione all’amianto.

La fibra killer, come viene chiamata, è stata messa al bando nel 1992, con l’approvazione della legge 257, che ne vieta la lavorazione e l’utilizzo. Il testo prevede, fra le altre cose, il censimento delle aree e delle strutture contaminate, insieme alla successiva predisposizione di piani di bonifica. Un compito complesso, da attuarsi attraverso la sinergia tra gli enti locali, i singoli cittadini, le imprese, le Asl.

Complesso, ma non impossibile, se solo ognuno svolgesse il proprio dovere in maniera responsabile. È questa l’accusa che la società civile e le associazioni che rappresentano le vittime dell’amianto rivolgono alle istituzioni. Anni di negligenza e di corruzione hanno prodotto una mancanza di controllo sulla situazione generale e nei territori. Secondo l’Istituto superiore di sanità, il picco delle morti per mesotelioma pleurico, tumore collegato all’amianto, è previsto tra il 2015 e il 2020.

La malattia ha un periodo di incubazione di circa 25 anni, per cui il dato riguarda essenzialmente chi, prima del 1992, lavorava la fibra o era a contatto con essa. Ma il problema, oggi, è che nonostante la messa al bando del minerale, la sua presenza nella nostra vita quotidiana è ancora altissima, e ciò protrae il rischio di ammalarsi, anche in futuro.

Ancora oggi, infatti, l’amianto è presente negli edifici pubblici e privati: dagli ospedali alle scuole, fino alle abitazioni private. È stato utilizzato per la costruzione di tetti e grondaie, delle tubature e per la coibentazione degli ambienti. La salvaguardia della salute deve estendersi a tutti i cittadini e a nuove categorie di lavoratori. A cominciare da chi effettua le bonifiche.

Tiziana Vai, medico del lavoro presso la Asl di Milano, osserva come ‘negli ultimi anni, anche in virtù della crisi, la qualità del lavoro di chi effettua le bonifiche è peggiorata. Oltre alle imprese più accreditate, che continuano a rispettare standard di sicurezza adeguati, assistiamo alla nascita di tante piccole ditte, che operano in subappalto, in condizioni spesso affrettate, in economia, e con livelli di protezione insufficienti’.

Le conseguenze si manifesteranno in seguito. Un problema simile riguarda quei lavoratori che effettuano interventi di edilizia sia pubblica che privata, come i manutentori degli impianti termotecnici, gli installatori, gli addetti alle pulizie, che anche inconsapevolmente vengono a contatto con l’asbesto nello svolgimento del proprio lavoro.

Magari, nemmeno i committenti ne sono coscienti. L’ostacolo più grande da superare, in materia di amianto, sembra essere quello della conoscenza del fenomeno. Non esistono campagne che informino i cittadini.

A tale proposito Giacinto Botti, segretario regionale della Cgil Lombardia, sottolinea che ‘le conseguenze derivanti dall’esposizione all’amianto sono sottovalutate, rimosse per ignoranza, disinteresse. Ma anche laddove c’è consapevolezza, mettiamo il caso di una famiglia o di un condominio che intendano effettuare lavori di bonifica, non si può pensare che le affrontino senza agevolazioni e adeguati sostegni pubblici. Il rischio è che la rimozione e lo smaltimento non si facciano affatto; o, peggio, che avvengano non attraverso gli operatori e le aziende preposti, ma sotterrando o gettando l’amianto nei cassonetti, nei fossi e in campagna’…

C’è scarsa consapevolezza, si diceva, ma anche una colpevole mancanza di chi, sapendo della presenza di amianto in una determinata struttura, non lo segnala alla Asl, cavandosela, se scoperto, con una multa di 200 euro. Incentivi e deterrenti sono ancora scarsi. La condotta delle istituzioni, ambivalente: in parte irresponsabile, ma anche segnata dalla scarsità di mezzi. Quello che doveva essere un obbligo di mappatura sancito dalla legge è così affidato alla buona volontà di chi è costretto a vedersela con carenze di organico e di finanziamenti.

La questione non riguarda solo le aree inquinate, ma anche le persone malate o potenzialmente a rischio. L’Italia è tra i pochi paesi a possedere un registro dei mesoteliomi, ma le forme tumorali legate all’amianto non si limitano a questa patologia. Neoplasie come quelle al polmone, alla laringe e alle ovaie, molto diffuse tra la popolazione, possono, in alcuni casi, derivare dall’esposizione all’amianto…”.


In Italia non esiste la politica industriale

15 novembre 2012

La politica industriale italiana non esiste. Un vuoto che ha accompagnato il declino economico del paese e che ora non ci possiamo più permettere. Lo sostengono 46 economisti, i quali hanno convocato un incontro a Roma il 10 dicembre prossimo e hanno redatto un manifesto per la politica industriale.

Il manifesto in questione, pubblicato su www.sbilanciamoci.info, è il seguente.

“La politica industriale italiana non esiste: crisi di idee e crisi di strumenti (oltre alla crisi finanziaria) rendono difficile parlarne e, ancor di più, essere presenti sui principali media.

L’affermazione prevalente viene riassunta in una espressione: ‘la migliore politica industriale è quella che non c’è’.

Si tratta di una espressione tanto gradita in alcuni ambienti intellettuali (e facilmente divulgabile sui mezzi di comunicazione di massa), quanto del tutto infondata nella realtà.

Lo scenario internazionale non vede – e non ha visto in epoca moderna – nessun paese al mondo (con poche e trascurabili eccezioni) disinteressato alle sorti della propria struttura produttiva e dei suoi comparti più qualificanti.

Tutti (dagli USA alla Cina, dalla Germania alla Francia, dal Giappone al Brasile, dall’India alla Gran Bretagna) intervengono con risorse finanziarie, con servizi di accompagnamento, con sostegni alla ricerca, con domanda pubblica e con ogni strumento possibile fino al limite consentito dalle regole e dagli accordi internazionali.

Contrapporre a questa realtà mondiale un’Italia in cui la capacità di rimuovere qualche freno istituzionale possa divenire l’unica funzione dello Stato per riportare il paese su un sentiero sostenuto di crescita, appare riduttivo e fuorviante.

La specificità storica del sistema produttivo italiano, costituita, da un lato, dalla presenza nel Sud di una vasta area con significative debolezze del contesto socioeconomico e, dall’altra, dalla marcata caratterizzazione territoriale dei sistemi di imprese (così come della vasta platea di PMI dinamiche), richiede risposte adeguate.

Confinare il legittimo intervento della policy solo ad alcune tra le aree in cui si manifestano i ‘fallimenti del mercato’ (in un mondo che vede pochi esempi di corretti funzionamenti degli stessi mercati) non consente di ragionare diffusamente sui reali problemi di policy.

Questi ultimi riguardano, in primo luogo, la costruzione di un disegno strategico di ampio respiro, declinato in obiettivi dettagliati, concreti, verificabili; e, in secondo luogo, la necessità di approfondire i ‘fallimenti dello Stato’ intesi non come l’impossibilità congenita dei Governi a funzionare, ma piuttosto come gli effetti di politiche mal disegnate e mal gestite del passato che devono essere corrette, identificate e ben amministrate.

L’accezione delle politiche industriali come inevitabilmente inefficienti è frutto di una visione ideologica che condanna tout court ogni misura di intervento pubblico per le imprese.

Il quadro analitico e valutativo presenta evidenze di segno diverso. La fragilità della base informativa e la capacità spesso ridotta di fornire informazioni utili ai policy maker richiedono approfondimenti e non possono costituire un supporto sufficiente per decretare la cancellazione di ogni politica.

Esiste uno spazio rilevante per l’intervento pubblico aggregabile intorno alla definizione di Politica Industriale nel contesto europeo.

La capacità di indirizzo delle attività private (in forma individuale o associata) da parte dei governi si realizza principalmente attraverso tre vie: l’erogazione di premi monetari o di riduzione del rischio per i soggetti che sviluppano azioni ritenute meritorie; la gestione attiva della spesa pubblica;  la regolazione e l’indirizzo in senso stretto.

E’ tempo di riflettere su questi aspetti e di intervenire su tutti i fronti. Gli interventi devono tenere nella debita considerazione le disponibilità di finanza pubblica (dobbiamo parlare, nella migliore delle ipotesi, di politiche a risorse date) e l’efficienza amministrativa.

Il modo in cui gli interventi possono essere declinati deve essere oggetto di grande cura: come sempre, saranno i dettagli che definiranno la qualità delle politiche. Non è questa la sede per approfondirli, tuttavia si possono individuare alcune precondizioni che sono alla base di un necessario cambiamento di operatività.

I tre criteri guida devono essere: selettività, informazione/conoscenza, responsabilità.

Con vincoli di bilancio stringenti si è obbligati a selezionare, con estrema cura, obiettivi coerenti con le risorse disponibili e con gli strumenti. Sia pure con problematiche diverse, la selezione va operata nel campo degli interventi diretti, dei servizi e in quello dell’orientamento della spesa.

L’informazione corretta è premessa indispensabile di ogni politica (e anche della selezione), ad essa sono dedicate attenzioni troppo modeste, mentre, con una certa disinvoltura, si ‘pubblicano’ cifre prive di rigore e di attendibilità. Gli stessi numeri sbagliati possono tramutarsi facilmente in verità ‘acclarate’ e orientare in modo distorto il dibattito politico ed economico. Una parte non marginale di tale informazione riguarda la necessità di rispettare criteri sostanziali di trasparenza delle amministrazioni, si tratta di predisporre database pienamente informativi, accessibili a tutti e che consentano anche esercizi indipendenti di analisi e valutazione.

Infine, la responsabilità degli amministratori costituisce un tema ineludibile.

Per molti anni si è cercato di definire meccanismi e regole alla ricerca di modelli di intervento neutrali ed efficienti seguendo procedure meccanicamente riprodotte a tutti i livelli di governo e cercando di sottrarre intelligenza agli operatori pubblici. La responsabilizzazione dei dirigenti pubblici è un fattore determinante per il recupero di una qualità amministrativa standard ed essenziale per qualsiasi politica efficiente. Non si tratta di attribuire responsabilità legali (che già esistono in abbondanza), ma di fondarsi sulla ricerca di competenze e meriti che devono potersi esprimere e operare.

Riteniamo che esistano spazi per una politica industriale efficiente ed efficace seguendo un disegno accurato e coerente che tenga conto dei vincoli esistenti, valorizzi gli strumenti potenzialmente a disposizione, impari dalle esperienze positive, nazionali e internazionali”.


Lo sport del doping

13 novembre 2012

Oltre 100 inchieste giudiziarie , dal 2000 sequestrati circa 105 milioni di dosi di farmaci usati per doping, alla media di 8 milioni di dosi sequestrate all’anno. In Italia nel solo 2011 il consumo di farmaci e sostanze è stato stimato in almeno 371 milioni di dosi, pari ad un costo di annuo di circa 425 milioni di euro. Un consumo riferibile a circa 185.000 praticanti le diverse attività sportive e a circa 69.000 praticanti il body building, per un totale nazionale stimabile, come minimo, in 254.000 assuntori. Cifre, numeri ed inchieste per fotografare e valutare l’attuale diffusione del doping in Italia e del controvalore economico del suo mercato illegale sono stati denunciati da Libera in occasione della presentazione del nuovo libro di Sandro Donati , “Lo sport del doping. Chi lo subisce, chi lo combatte”.

In una nota pubblicata su www.libera.it si analizzano i contenuti del libro.

“…Rimane invece sconosciuta la reale diffusione del doping tra gli atleti di elevato livello che, evidentemente, presentano un rischio doping sensibilmente maggiore che, però, per una serie di ragioni, non traspare dai risultati dei controlli anti-doping.

E’ significativo il fatto che a fronte del 4,5% di casi positivi rilevati nello sport amatoriale dai controlli della commissione anti-doping del ministero della Salute, la percentuale dei casi positivi nei controlli attuati dal Coni sugli atleti di alto livello si attesta intorno allo 0,70%. Senza considerare – ed anche questo è estremamente significativo – che il Coni ha smesso nel 2007 di pubblicare sul suo sito i risultati dei propri controlli!

Le ragioni della ‘debolezza’ di tali controlli sugli atleti di alto livello sono diverse: la coincidenza controllori controllati che, evidentemente, rappresenta un freno estremamente rilevante; la pressoché totale assenza di controlli a sorpresa che, come è noto, sono molto più efficaci di quelli programmati e quindi prevedibili in gara; la debolezza delle analisi anti-doping che non riescono a rintracciare nelle urine numerose sostanze; l’evidente ‘buco nero’ dei controlli nel calcio e, più in generale, sui professionisti (delle diverse specialità sportive) di elevata valenza economica.
Dopo ‘Campioni senza valore’, uscito nel 1989, il maestro dello Sport, Sandro Donati con questo libro torna sulla sua decisione di ‘smettere di raccontare’ i suoi 35 anni di lotta contro il doping e ci consegna una coinvolgente testimonianza senza precedenti, raccontandoci cosa ha visto, senza risparmiare particolari e nomi dei protagonisti delle vicende che hanno caratterizzato la sua solitaria battaglia.

Gli scandali del doping si susseguono – si legge nel libro – coinvolgendo campioni di primissimo piano.

È ormai consapevolezza diffusa che in diverse discipline sportive il ricorso al doping coinvolge gran parte degli atleti di vertice e altera i risultati delle maggiori competizioni sportive, favorito da dirigenti che guardano solo al numero delle vittorie e da una parte della stampa sportiva che preferisce non vedere e non sentire.

Pochi sanno, invece, che tutto questo ha fatto ‘scuola’ e che molti praticanti di livello amatoriale affollano gli ambulatori dei medici dei ‘campioni’ per farsi prescrivere la ‘cura’ miracolosa che può consentire loro di battere in gara il collega di ufficio o il vicino di pianerottolo.

Così il doping è diventato fenomeno di grandi numeri, con molti punti di contatto con la droga e sta generando traffici internazionali manovrati dietro le quinte dalle multinazionali farmaceutiche e con gli interessi della criminalità organizzata…”.


Gli anziani, un peso per le famiglie?

11 novembre 2012

Se in famiglia c’è un anziano malato cronico, sono guai, non solo economici. Parliamo di migliaia di persone: in Italia nel 2011 (dati Istat) oltre il 50% di chi ha tra i 65 e i 74 anni di età ha almeno una patologia cronica e, di questi, solo il 30% dichiara di essere in buona salute. A far luce sulle problematiche dell’assistenza socio-sanitaria agli anziani malati cronici, e sull’inevitabile risvolto sulle loro famiglie, è l’XI rapporto nazionale sulle politiche della cronicità “Emergenza famiglie: l’insostenibile leggerezza del Welfare”, presentato a Roma dal CnAMC (Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici) di Cittadinanzattiva.

In una nota pubblicata su www.cittadinanzattiva.it si esaminano i contenuti del rapporto.

“Ad occuparsi della cura ed assistenza all’anziano malato cronico è, in più della metà (56%) dei casi, un solo nucleo familiare.

Ciascuna famiglia dedica mediamente all’assistenza del familiare anziano oltre 5 ore al giorno. Tale situazione, in circa il 93% dei casi, non permette ai componenti delle famiglie di conciliare l’orario lavorativo con le esigenze di assistenza, al punto che oltre la metà (53,6%) segnala licenziamenti e mancati rinnovi o interruzioni del rapporto di lavoro.

A tutto ciò va aggiunta la difficoltà crescente di fronteggiare i costi legati alla cura dell’anziano malato cronico.

Solo per fare alcuni esempi, le famiglie mediamente spendono in un anno circa 8.500 euro per il supporto assistenziale integrativo alla persona (badante), 3.700 euro per lo svolgimento di visite, esami o attività riabilitativa a domicilio. Quasi 14.000 euro, in media, è il costo per la retta delle strutture residenziali e/o semiresidenziali…

‘E’ inaccettabile e ai limiti della costituzionalità: lo Stato si sta tirando indietro rispetto alle responsabilità in materia di assistenza sanitaria e sociale, e il peso di tutto ciò, ormai insostenibile, è scaricato completamente sulle spalle e sulle tasche delle famiglie.

Dopo il taglio di 25 miliardi e 500 milioni di euro alla sanità maturato negli ultimi anni, comprensivi della previsione delle risorse che saranno sottratte con la legge di stabilità, e l’azzeramento dei fondi a carattere sociale, ora si parla di tassare le pensioni e gli assegni di invalidità: saremmo davvero alla fine delle politiche sociali nel nostro Paese’.

È quanto afferma Tonino Aceti, responsabile nazionale del CnAMC di Cittadinanzattiva. ‘Oggi sono concretamente a rischio la garanzia dei Livelli Essenziali di Assistenza e il mantenimento dei servizi e degli interventi sociali dei Comuni, con particolare riguardo a quelli del Mezzogiorno’…

Se il paziente anziano viene dimesso dall’ospedale, in un terzo dei casi è la famiglia ad occuparsi di tutto, senza aver ricevuto alcun orientamento…

 Nel 76% dei casi, contestualmente alle dimissioni ospedaliere, non viene attivata l’assistenza domiciliare…

Quasi nessuno è soddisfatto dell’assistenza che riceve a casa: solo il 27% la considera mediamente adeguata, e per il restante 73% essa è inadeguata.

Sull’assistenza domiciliare integrata, è marcata la variabilità regionale: 1,5% di anziani trattati in Sicilia, nel 2010, a fronte dell’ 11,6% dell’Emilia Romagna…

Secondo gli ultimi dati del Ministero della Salute relativi al 2009, la disponibilità di posti letto per le strutture residenziali e semiresidenziali è caratterizzata da una profonda difformità regionale: si passa dagli 897 posti letto per 100.000 abitanti della Provincia Autonoma di Trento ai 59 posti letto della Sicilia…

L’incidenza dei ticket tra il 2007 e il 2011 è praticamente più che raddoppiata, passando rispettivamente da 539 a 1337 milioni di euro…

Troppo spesso assistiamo a situazioni di disagio psicologico ed abbandono dell’anziano, forse più dolorose della patologia. Il suo stato di salute è valutato quasi esclusivamente sotto il profilo clinico, come denuncia circa il 90% delle Associazioni; largamente sottovalutato l’aspetto psicologico considerato solo nel 20% dei casi…”.


La povertà si diffonde

8 novembre 2012

E’ in aumento il numero dei poveri. E’ quanto emerge dal rapporto Caritas 2012 sulla povertà in Italia.

In un articolo pubblicato su www.sanita.ilsole24ore.com Rosanna Magnano analizza i principali contenuti del rapporto.

“Sempre più italiani, casalinghe, anziani, genitori separati, soprattutto donne, con situazioni di multi problematicità che coinvolgono intere famiglie.

Il profilo dei nuovi utenti dei centri di ascolto Caritas è sempre meno coincidente con quelli della grave marginalità e va verso una ‘normalizzazione sociale’ del bisogno.

La povertà dunque si diffonde. E’ il quadro che emerge dal nuovo rapporto Caritas 2012 su povertà ed esclusione sociale in Italia, dal titolo ‘I ripartenti. Povertà croniche e inedite. Percorsi di risalita nella stagione della crisi’.

Rispetto al 2009 si osserva un forte incremento della componente demografica in età avanzata: +51,3% di anziani; +177,8% di casalinghe; +65,6% di pensionati.

A tale tendenza si associa l’incremento di utenti con figli minori conviventi (+52,9%) e una sostanziale stabilità nel numero di persone separate o divorziate (+5,5%).

Da notare infine la diminuzione di persone disoccupate (-16,2%) e soprattutto di analfabeti (-58,2%).

Nel 2011, il problema-bisogno più frequente degli utenti dei centri Caritas è quello della povertà economica (26% del totale), seguito dai problemi di lavoro (22,9%). Poco significativi alcuni problemi che evidentemente trovano spazi di ascolto in altri tipi di servizi, e che fanno registrare livelli di incidenza tutti inferiori al 2% (istruzione, detenzione, dipendenze, disabilità, ecc.). I problemi di salute coprono una quota del 7,3% fra gli utenti italiani e dello 0,9% fra gli stranieri.

Tra gli stranieri l’incidenza della povertà economica è meno pronunciata rispetto a quanto accade tra gli italiani (22,2% contro il 40,6%). Identici per le due macroprovenienze nazionali i livelli di diffusione della disoccupazione (circa 24%). Interessante notare come i problemi abitativi siano più diffusi tra gli italiani (10,4%) rispetto a quanto si osserva tra gli stranieri (6%). Diminuisce nel complesso la richiesta di assistenza sanitaria (1,9% rispetto al 4,4% del 2009).

In base agli ultimi dati relativi ai primi 6 mesi del 2012 si confermano alcune linee di tendenza: aumentano ancora gli italiani (+ 15,2%); stabili i disoccupati (59,5%); aumentano i problemi di povertà economica (+10,1%); diminuisce del 10,7% la presenza di persone senza dimora o con gravi problemi abitativi; aumentano gli interventi di erogazione di beni materiali (+44,5%).

In generale, quindi, si legge nel rapporto Caritas, la crisi economico-finanziaria ha determinato l’estensione dei fenomeni di impoverimento ad ampi settori di popolazione, non sempre coincidenti con i ‘vecchi poveri’ del passato. Si impoveriscono ulteriormente le famiglie immigrate e peggiorano le condizioni di vita degli emarginati gravi, esclusi da un welfare pubblico sempre più residuale…”.