Il debito mondiale crescente è pericoloso

27 febbraio 2024

Il debito mondiale continua a crescere. Nel 2023 è aumentato di 15.000 miliardi in più rispetto all’anno precedente. E’ stato raggiunta la quota record di 313.000 miliardi di dollari. Questi dati sono contenuti nel “Global debt monitor”, pubblicato dall’ “Institute of International finance”.

L’aumento verificatosi nel 2023 è quasi equamente diviso tra i Paesi avanzati (guidati principalmente da Stati Uniti, Francia e Germania) e le economie emergenti (soprattutto in Cina, India e Brasile).

Occorre aggiungere però che il rapporto tra debito mondiale e Pil è diminuito nel 2023, rispetto al 2022, raggiungendo comunque un elevato valore, il 331,2%.

Però, mentre quel rapporto è diminuito nei Paesi europei, in quelli emergenti è di nuovo aumentato.

In Italia il debito globale è aumentato di 384 miliardi di dollari, nel 2023, raggiungendo il valore di 6.380 miliardi di dollari. Rispetto al Pil è diminuito dal 288,7% del 2022 al 284% dell’anno successivo.

Sempre in Italia, per quanto concerne le diverse componenti del debito, lo Stato ha giocato la parte del leone (221,7 miliardi), seguito dalle banche (99,6 miliardi), dalle imprese (38 miliardi) e dalle famiglie (24,5 miliardi).

Infatti, normalmente quando ci si occupa del debito si fa riferimento solo al debito pubblico. Invece in questa nota si esamina anche il debito privato che viene sommato a quello pubblico.

Un debito mondiale così elevato può essere pericoloso e in grado, negli anni futuri, di determinare crisi finanziarie che possano esercitare effetti molto negativi?

Dipende, secondo l’Iif, da tre incognite, la prima delle quali riguarda il comportamento delle banche centrali.

“L’incertezza sulla traiettoria dei tassi e del dollaro potrebbe aumentare ulteriormente la volatilità del mercato e indurre condizioni di finanziamento più rigide per i Paesi che dipendono in misura relativamente elevata dai prestiti esteri”.

La seconda incognita è connessa all’eventuale ripresa delle pressioni inflazionistiche che rischierebbe inoltre di accelerare il processo di riduzione dei bilanci delle stesse banche centrali “con un impatto negativo sulle prospettive dei mercati globali del debito attraverso un aumento dei costi di finanziamento”.

L’ultima grande incognita è rappresentata dalla variabile geopolitica, che sta rapidamente emergendo come autentico rischio strutturale.

“I deficit di bilancio dei governi sono ancora ben al di sopra dei livelli pre-pandemia e un’accelerazione dei conflitti regionali potrebbe innescare una brusca impennata della spesa per la difesa”.

Inoltre “il crescente protezionismo commerciale e i conflitti geopolitici potrebbero esacerbare ulteriormente i vincoli della catena di approvvigionamento, determinando un aumento della spesa pubblica per mitigare le implicazioni negative di una maggiore frammentazione del commercio e dei flussi di capitale”.


La Bce ha sbagliato ancora

24 marzo 2023

La Banca centrale europea, nell’ultima riunione del suo Consiglio, non solo ha deciso di aumentare i tassi di interesse ma li ha aumentati di 50 punti base, dell’0,5% cioè. L’incremento è stato piuttosto consistente. Molti osservatori e anche alcuni componenti del Consiglio avevano ritenuto opportuno che l’aumento non oltrepassasse l’0,25%.

Quindi la Bce continua ad attuare una politica monetaria eccessivamente restrittiva.

Innanzitutto un aumento più contenuto dei tassi di interesse, o addirittura la loro stabilità, sarebbe stato auspicabile alla luce dei problemi che recentemente hanno interessato alcune banche, per ora americane e una svizzera, dovuti anche all’elevato aumento dei tassi di interessi deciso da molte banche centrali, problemi che potrebbero in futuro colpire anche banche di Paesi facenti parte dell’Unione europea, o meglio dei Paesi della cosiddetta area euro.

Inoltre, proseguire con una politica monetaria fortemente restrittiva, può rappresentare un forte ostacolo alla crescita economica dei Paesi europei, crescita che è già rallentata considerevolmente e che potrebbe tramutarsi in una vera e propria recessione.

I sostenitori, nell’ambito della Bce, di una politica monetaria fortemente restrittiva, la giustificano con la necessità di contrastare l’inflazione che, nei mesi passati, era fortemente aumentata.

Ma occorre ribadire che in Europa, diversamente dagli Stati Uniti d’America, l’inflazione è dovuta soprattutto ad un notevole aumento dei costi, è appunto un’inflazione da costi, non un’inflazione da domanda, nei confronti della quale una politica monetaria restrittiva è scarsamente efficace.

E occorre rilevare, poi, che in Europa, negli ultimi periodi, l’inflazione si sta attenuando e che, anche per questo motivo, sarebbe stato necessario o non aumentare di nuovo i tassi di interesse o aumentarli in misura minore.

Pertanto mi sembra opportuno concludere che, nell’ultima riunione del proprio Consiglio, la Bce ha sbagliato di nuovo.

Spero quindi che, quanto prima, la Bce muti la natura della politica monetaria che persegue.

Diversamente si produrrebbero effetti negativi di vario genere che devono essere assolutamente evitati.


No a una politica economica restrittiva

26 Maggio 2022

In Italia, come altrove, soprattutto in considerazione dell’aumento del tasso di inflazione, da più parti si evidenzia la necessità di adottare una politica economica restrittiva, sia per quanto riguarda la politica monetaria che per quanto concerne la politica di bilancio.

Io credo che, invece, occorra essere molto prudenti nell’adottare una politica economica restrittiva, quanto meno in Italia.

Si corre il rischio, infatti, che si verifichi quella che gli economisti chiamano “stagflazione”, la contemporanea presenza cioè di un ristagno economico, o quanto meno di una crescita molto lieve, e di un’inflazione piuttosto elevata.

Noi non ci possiamo permettere, innanzitutto, il verificarsi di una crescita economica molto limitata.

In primo luogo perché nel 2021 c’è stato sì un incremento consistente del Pil che però non ha compensato completamente la forte riduzione verificatasi nel 2020 a causa della pandemia. Non si può attendere ancora nell’obiettivo di raggiungere il livello del Pil pre-pandemia, quello del 2019, anche perché nel 2019 e negli anni precedenti il Pil, in Italia, era aumentato in misura inferiore rispetto a quanto verificatosi negli altri Paesi europei.

Del resto un’insufficiente crescita economica non garantirebbe nemmeno il raggiungimento del numero degli occupati pre-pandemia e soprattutto non determinerebbe la necessaria crescita degli occupati a tempo indeterminato e la contemporanea riduzione di quelli a tempo determinato.

Molti osservatori però, a questo punto, potrebbero concordare sulla necessità teorica di un politica economica non restrittiva, per consentire una crescita economica piuttosto consistente, ma obietterebbero che non possiamo permetterci una politica economica di quella natura.

Infatti, a parte il fatto che la politica monetaria è in mano alla Bce che ha deciso, proprio a causa dell’intensificarsi dell’inflazione, di attenuare progressivamente la natura espansiva della politica monetaria, una politica di bilancio non restrittiva potrebbe determinate un aumento del rapporto deficit pubblico-Pil e soprattutto del rapporto debito pubblico-Pil, che non possiamo permetterci, prevalentemente perché i mercati finanziari potrebbero farcela pagare determinando un’eccessiva crescita dei tassi di interesse.

In realtà, non è affatto detto che una politica di bilancio espansiva provochi un aumento del rapporto debito-Pil, per vari motivi, il più importante dei quali è rappresentato dal fatto che il denominatore di quel rapporto è il Pil nominale che potrebbe aumentare sia perché aumenterebbe il Pil reale, in seguito ad una politica di bilancio espansiva, sia perché continuerebbe ad aumentare il tasso di inflazione, anche se auspicabilmente in misura inferiore rispetto alla situazione attuale.

Certo, molto dipenderebbe dalla qualità della spesa pubblica, dalla necessità cioè che l’aumento della spesa pubblica sia determinato soprattutto da un aumento degli investimenti e non da un incremento della spesa corrente.

E poi, anche se aumentasse un po’ il rapporto debito pubblico-Pil, non sarebbe un dramma se si considera che anche nel 2022 siamo in una situazione di emergenza, particolare, contraddistinta dalla guerra in Ucraìna, che determina e determinerà un incremento dei prezzi dei prodotti energetici, incremento peraltro iniziato prima dell’inizio dell’aggressione della Russia di Putin ai danni degli ucraìni.

Peraltro, una politica economica restrittiva potrebbe non determinare gli effetti sperati nell’attenuazione dell’inflazione, perché quella attuale che non è tanto un’inflazione da domanda ma soprattutto un inflazione da costi, causata prevalentemente da un incremento dei prezzi dei prodotti energetici.

Inoltre, le autorità dell’Unione europea faranno slittare al 2023 la ripresa del cosiddetto patto di stabilità che, inoltre, è auspicabile e probabile  che sia considerevolmente cambiato. Quindi, in teoria, non dovremmo rispettare alcun limite preciso sia per quanto concerne il rapporto deficit pubblico-Pil sia per quanto riguarda il rapporto debito pubblico-Pil, pur se sarà opportuno che non si determini un forte aumento di entrambi quei rapporti.

Ma, ripeto, se la politica di bilancio assumerà le caratteristiche prima indicate, sarebbe anche possibile che il rapporto debito pubblico-Pil non aumenti affatto.

E comunque, infine, tra gli obiettivi che dobbiamo porci non c’è solamente una stabilità, o quanto meno un lieve aumento, dei tassi di interesse, ma una consistente crescita del Pil e dell’occupazione, per i motivi in precedenza esplicitati.


Sarà stagflazione?

11 ottobre 2021

In molti Paesi sviluppati, tra i quali l’Italia, si sta manifestando un aumento dei prezzi, determinato soprattutto dall’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e delle materie prime. Alcuni osservatori stanno ipotizzando che potrebbe determinarsi di nuovo un fenomeno che diversi anni fa, negli anni 70 del precedente secolo soprattutto, è avvenuto alcune volte: inflazione e ristagno economico, ristagno delle attività produttive.

Il ristagno economico, l’arrestarsi quindi della crescita del Pil, potrebbe essere causato dal modificarsi delle politiche monetarie delle banche centrali che, per contrastare l’inflazione, potrebbero cessare gli interventi espansivi ed adottare invece politiche restrittive.

Tale scenario non è condiviso da tutti gli economisti, anzi per ora solo una parte di essi lo prevedono.

Ma, nell’ambito delle banche centrali, i “falchi”, coloro che ritengono necessario adottare politiche monetarie restrittive, stanno già sostenendo che tali politiche dovrebbero essere attuate subito.

In realtà, la discussione si sta manifestando circa la natura degli incrementi dei prezzi. Infatti per ora tali aumenti vengono considerati da molti temporanei, determinati da fattori inerenti l’offerta non la domanda, e che nei prossimi mesi dovrebbero esaurirsi.

Ci si attende soprattutto che nei prossimi mesi vi sia una maggiore disponibilità di prodotti energetici che determinerebbe una riduzione dei loro prezzi.

E se la natura degli incrementi dei prezzi fosse davvero temporanea non sarebbe opportuno modificare adesso le politiche monetarie in senso restrittivo e quindi la stagnazione non si verificherebbe.

Io credo che sia valida l’opinione di quanti avvalorano la tesi della natura temporanea degli aumenti dei prezzi in questione.

Può essere utile comunque riportare alcune parti dell’articolo di Rony Hamaui, pubblicato di recente su www.lavoce.info e dedicato a questi temi.

Rony Hamaui rileva soprattutto le differenze tra la situazione attuale e quella che caratterizzo gli anni ’70 del secolo precedente spesso contraddistinto appunto dalla stagflazione.

“La situazione di oggi, tuttavia, sembra per molti aspetti diversa da quella degli anni Settanta.

Da un lato, usciamo dalla più pesante deflazione degli ultimi settanta anni e la ripresa appare vigorosa anche se incerta.

In molti Paesi la capacità occupata rimane ancora sotto i livelli precrisi, mentre è ripartita una nuova fase d’investimenti che è destinata a incrementare l’offerta e aumentare l’efficienza produttiva.

Inoltre, le banche centrali godono, almeno nei paesi avanzati, di un’indipendenza e di una credibilità che certamente non avevano negli anni Settanta.

Dall’altro, oggi i bilanci pubblici, ma anche privati, presentano livelli di debito da economia di guerra, che necessitano non solo di bassi tassi d’interesse e di una forte crescita ma anche di un po’ d’inflazione.

Solo così il debito accumulato risulta sostenibile, soprattutto se rapportato al Pil nominale.

Si spiega così l’imbarazzo delle banche centrali nell’abbandonare gli straordinari stimoli che hanno dovuto adottare per contrastare la peggiore epidemia dell’ultimo secolo, ma ciò pone in discussione la loro effettiva indipendenza.

In fin dei conti, è probabile che non assisteremo a una forte e duratura stagflazione, ma il rischio che l’economia mondiale rallenti e che una moderata inflazione duri più a lungo del voluto è certamente da mettere in conto.

Di qua la necessità del governo Draghi di accelerare le riforme previste dal Recovery Plan e di augurarsi che la Banca centrale europea non legga il suo mandato alla stabilità dei prezzi in maniera rigida”.