Le colpe sono dei politici o anche dei cittadini?

1 agosto 2022

Spesso, nell’amministrazione del nostro Paese, come in occasione della recente crisi di governo che ha affossato il governo Draghi, si sostiene che le responsabilità dei problemi che si verificano sono esclusivamente degli esponenti politici, inadeguati a svolgere i loro compiti, interessati solamente alla gestione e alla ricerca del potere.

In effetti sono diversi anni che da parte dei cittadini si manifestano forti critiche nei confronti del mondo politico, dei partiti, in modo indiscriminato, tanto che da tempo si parla del diffondersi dell’antipolitica.

Una delle conseguenze più evidenti di tale situazione è rappresentata dal crescente astensionismo che si verifica nelle elezioni, sia locali che nazionali.

C’è chi rileva però, come il sottoscritto, e ad esempio Michele Serra, che le responsabilità sono anche degli elettori che scelgono i loro rappresentanti, nelle diverse elezioni, e che quindi i politici, in ultima analisi, sono lo specchio del Paese.

Si afferma anche che la società italiana ha i politici che si merita.

Vittorio Pelligra, in un recente articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore”, non è d’accordo e scrive: “Esistono intelligenze, nel Paese, che farebbero, alla prova dei fatti, molto meglio di una classe politica che si è dimostrata spesso sciatta, cinica e arruffona. Energie e intelligenze, però, che si sono sistematicamente allontanate dall’impegno politico diretto a causa dell’idea che della politica è stata scientemente costruita”.

Al termine del suo articolo Pelligra corregge un po’ il tiro, prendendosela anche con la cosiddetta società civile:

“E però è anche responsabilità del ‘terzo pilastro’, delle comunità civili organizzate, farsi avanti, in maniera determinata e determinante. Non per costruire un nuovo partito, ma per contaminare, svecchiare e innovare quelli esistenti, i loro programmi, le loro liturgie.

Servirebbe, in questo senso, un’azione coordinata e potente per creare una massa critica che risulti non più assimilabile e sterilizzabile.

Non è più tempo di una società civile che vive nel suo isolamento più o meno snobistico, perché non può esserci una società veramente civile che non sia anche, e soprattutto, una società politica.

Perché il nostro Paese ha un disperato bisogno di concretezza e novità, non di gente che guarda dall’altra parte”.

In linea di massima sono abbastanza d’accordo con l’ultima parte dell’articolo di Pelligra, ma due sono gli interrogativi che le sue considerazioni mi suscitano:

I gruppi dirigenti dei partiti non sarebbero in grado di impedire e annullare quell’azione coordinata e potente che le comunità civili organizzate dovrebbero promuovere?

Le comunità civili organizzate quante sono e soprattutto quanto sono forti, in maniera tale da potere effettivamente realizzare quell’azione coordinata e potente?

E poi il problema non è solamente quello di inserire nei partiti persone competenti e innovative, ma anche persone che intendano perseguire in primo luogo l’interesse generale.

Io ritengo che, attualmente purtroppo, e non credo di essere troppo pessimista, nella società italiana prevalgano persone che pensano esclusivamente al proprio interesse, nella vita quotidiana, non solamente in rapporto con la politica.

Di queste persone ce n’erano molte anche venti o trenta anni fa ma ora sono aumentate considerevolmente.

E quindi molte di loro criticano i politici ma in realtà si comportano come loro nelle attività che non riguardano la politica.

Pertanto, costoro, possono essere davvero un’alternativa agli esponenti politici che guidano i partiti?

In conclusione, al di là delle comunità civili organizzate, ritengo che sia necessario promuovere in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, nelle cosiddette democrazie liberali, una rivoluzione culturale molto diffusa che muti considerevolmente i valori che vengono considerati i più rilevanti dalla gran parte delle popolazioni.

Può servire quell’azione ipotizzata da Pelligra, relativamente alle comunità civili organizzate, ma non è sufficiente.


L’astensionismo è il risultato più importante

7 ottobre 2021

I risultati delle elezioni comunali, svoltesi alcuni giorni fa, in primo luogo quelli dei candidati a sindaco e dei diversi partiti, sono stati oggetto di notevole attenzione da parte dei media. Minore attenzione, anche se superiore a quanto avvenuto in passato, è stata rivolta alla forte crescita dell’astensionismo.

Io credo, invece, che la crescita dell’astensionismo può essere considerata anche più importante degli altri risultati.

Nel complesso hanno votato circa il 55% degli aventi diritto al voto, con una riduzione di oltre il 5% rispetto alle elezioni comunali del 2016 e nelle grandi città hanno votato anche meno del 50% degli elettori.

La crescita dell’astensionismo non è un fenomeno nuovo né contraddistingue solo il nostro Paese.

Ma con le elezioni del 3 e del 4 ottobre si è raggiunto un record, ovviamente negativo.

Indubbiamente vi sono delle cause specifiche e forse non ripetibili in futuro: gli effetti della pandemia ad esempio.

Ma altre cause potranno manifestarsi anche in futuro.

Peraltro, nelle grandi città, l’astensionismo è stato più elevato soprattutto nelle zone con maggiore presenza di ceti popolari.

Il fenomeno dell’astensionismo, inoltre, non può essere interpretato esclusivamente come crisi della politica ma, come alcuni attenti osservatori hanno già rilevato, come crisi della democrazia.

Infatti una vera democrazia ha bisogno di una democrazia rappresentativa il più possibile forte, non debole.

Ci sono anche altre forme di democrazia, ad esempio la democrazia diretta, che, tramite i referendum, sembra avere assunto un maggiore peso, considerando, relativamente ai referendum, il notevole numero di firme raccolte per quelli sull’eutanasia e sulla cannabis, anche se in questi casi ha svolto un ruolo importante la possibilità, per la prima volta, di firmare digitalmente.

Ma la democrazia rappresentativa non può che essere considerata la più importante.

E la principale causa dell’estensione del fenomeno dell’astensionismo è rappresentata dalla crescente crisi di fiducia tra partiti e cittadini, dall’affermarsi di alcuni caratteri negativi nell’ambito degli stessi partiti (perdita di una visione generale, scarso radicamento sul territorio).

Quindi si avverte sempre di più la necessità di procedere ad una riforma dei partiti che, però, non può essere attuata solamente dagli attuali gruppi dirigenti ma che deve essere richiesta, e forse imposta, dagli stessi cittadini.

Potrebbe anche essere utile attuare quella parte della Costituzione che prevedeva l’approvazione di leggi che regolassero le modalità di funzionamento dei partiti, rimasta fino ad ora inattuata.

Per la verità, avvisaglie della profonda crisi che caratterizza i partiti in Italia da tempo si erano manifestate. L’esempio più evidente il loro “commissariamento” con la nascita del governo presieduto da Mario Draghi.

Ma non si può continuare in questo modo.

Attendere, passivamente, che, elezione dopo elezione, l’astensionismo si accresca sempre di più. A quel punto la crisi della democrazia, connessa, come già ho notato, a quel fenomeno, diventerebbe ancora più preoccupante di quanto non lo sia già.

Quindi affrontare con decisione la crisi dei partiti, tramite una loro profonda riforma, è, senza dubbio, un obiettivo prioritario da perseguire, relativamente al sistema politico italiano.